No alla violazione dei diritti. Il disvalore delle donne tra carcere e ospedale

No alla violazione dei diritti. Il disvalore delle donne tra carcere e ospedale

Proprio ieri è stata festeggiata la giornata internazionale delle donne; in Italia l’8 marzo del 1972 ha visto partecipi molte donne a Roma, campo dei fiori, in una manifestazione che aveva l’intento  di rivendicare i diritti fondamentali di tutte le donne.

Fu uno dei cortei più intensi che la storia del movimento femminista abbia conosciuto.

Tutto nacque dal basso, da un istanza politica, umana ed esistenziale, che chiedeva giustizia rispetto alla violazione dei diritti delle donne che storicamente hanno subito restrizioni e mortificazioni continue, oltre che condanne etiche e morali.

Tra i molti diritti mancati rientrano la censura del diritto alla libera espressione, al libero pensiero, ma anche la discriminazione qualitativa del diritto al lavoro e alla percezione di un giusto salario, in termini equiparativi. Ma se la donna subiva e subisce ancora oggi forme di discriminazione e violenza nella società all’aperto, compresi i luoghi di lavoro e gli ambienti domestici, proviamo ad immaginare cosa significhi per le donne essere completamente trascurate e messe da parte all’interno di luoghi di potere come il carcere, ed in maniera trasversale anche negli ospedali, che dovrebbero essere concepiti come luoghi di cura e protezione.

Nell’istituzione detentiva penitenziaria è insorto di recente un movimento femminile che si chiama “Sbarre di zucchero”, e nasce come volontà di denuncia delle scarsissime condizioni igieniche cui sono sottoposte le carcerate. Ma la denuncia si muove e va ben oltre l’assenza del bidet o delle docce all’interno dei bagni; si denuncia il fatto che le carceri siano concepite aprioristicamente come luoghi si di reclusione, ma finalizzate al maschio, ispirate al maschio; cioè dispositivi disciplinari pensati per il maschio, richiamando cosi l’obsolescenza dei modelli paternalistici, impregnati di contenuti sessisti e misogeni. Tanto è vero che queste carcerate si lamentano del fatto che, rispetto agli uomini, non vengono prese in considerazione perché private del diritto ad una istruzione adeguata e allo svolgimento di un lavoro che sia per loro minimamente significativo e coinvolgente.

La divisione ferrea dei ruoli dunque, cosi come la precipua valorizzazione esclusiva del maschio ci racconta che è sempre l’uomo a detenere il potere. Ciò che manca dunque è il desiderio di condividerli questi ruoli, di una con-fusione immersiva delle caratteristiche femminili e maschili, infine della voglia di mettersi in gioco ed impegnarsi a capire.

Anche negli ospedali la situazione non è delle migliori.

Questa volta sarebbe coinvolto il reparto delle partorienti, dove le puerpere lamentano una grande mancanza di assistenza da parte delle ostetriche, sia durante che dopo il momento del parto. Anche gli ospedali dunque, che dovrebbero essere concepiti come luoghi in cui la cura nei confronti del paziente dovrebbe essere una missione, si rivelano per quello che sono in realtà, cioè luoghi in cui vige sempre più frequentemente la disumanizzazione dei rapporti.

In entrambe le situazioni contestuali ci verrebbe da dire che è sempre il corpo, e non a la persona nella sua complessità, a subire violazioni , e irreggimentazioni, richiamando una filosofia dualistica di stampo positivistico. Perché? Perché è il corpo, privato dell’anima che può essere controllato e disciplinato, che può essere diviso, reificato e ridotto a numero, a strumento. Il corpo è, cioè, una realtà biopolitica e la medicina una corrispondente strategia biopolitica.

Le differenze non sono soltanto evidenti tra maschi e femmine, nei termini di una discorso universale, ma inserite all’interno di una determinato contesto socio-economico di appartenenza. Qualsiasi deriva interclassista di tipo omologante va scongiurata.

Ci auguriamo che un giorno, non troppo lontano, le differenze, così come la ricerca di una identità e quindi di una unità improntata a modelli di giustizia sociale, diventino bisogni primari che siano culturalmente valorizzati.

Ci vuole dunque un’osmosi delle differenze.

Per questo, ci auguriamo che la femminilità, così come la mascolinità, vengano riconosciute come caratteristiche non solo prettamente individuali, ma patrimonio di una coscienza collettiva fino ad assurgere a simbolo di valori come il coraggio e la libertà e non un disvalore.