Utopie e dimenticanze: l’utilità, scegliendo le occasioni, di perdere la bussola

Utopie e dimenticanze: l’utilità, scegliendo le occasioni, di perdere la bussola

È stato pubblicato a fine giugno, su Psicoanalisi e Sociale, un saggio di Antonello D’Elia (1): Utopia e Dimenticanza. Saggio breve ma denso di riflessioni e inviti alla riflessione sul concetto di Utopia associato a quello della Dimenticanza.

Il confronto tra utopia e prassi è presente diffusamente nel pensiero di Basaglia. Anche nelle sue interviste televisive spesso Basaglia invocava la coerenza dell’azione personale anche quando sembravano lontani, quasi improponibili gli obiettivi che si poneva il movimento di trasformazione per la salute mentale.

Lo ricordava anche Maria Grazia Giannichedda nell’introduzione al libro L’utopia della Realtà, quando attribuiva a Basaglia “il rifiuto dell’utopia come altrove rispetto all’impegno di ciascuno qui e ora”.

Può apparire semplicistico ritenere che non può esistere un movimento di trasformazione che si basi sulla prassi, sull’azione concreta e quotidiana, se la prassi stessa non si ancora ad un altrove, ad un pensiero capace di immaginare la dissoluzione della realtà ed il superamento delle sue strutture e manifestazioni più negative.

Ma proprio qui Basaglia individuava i rischi del pensiero utopico: qualora l’utopia (la tensione trasformatrice) potesse essere relegata in uno spazio separato dalla realtà: quindi assolutamente inefficace, inutile se non ad un esercizio consolatorio. Esercizio in cui il desiderare, l’auspicare, anche il più forte volere rischiavano di restare lontani da ogni possibilità di attuazione.

Queste considerazioni, ben più articolate e radicali, Basaglia le fissava, tra l’altro, in Crimini di Pace, pubblicato nel 1975. Cosa è rimasto della tensione, dell’utopia concreta 50 anni dopo? Si è affermata in qualche modo, per dirla ancora con le parole di Basaglia, una figura, una funzione di intellettuale, di professionista capace di essere qualcosa di diverso da quella del tecnico del sapere pratico?

D’Elia avanza l’ipotesi (concreta anche questa, come quella utopia) che sia prevalso un processo di dimenticanza, ossia che si sia dimenticato che quanto di diverso e innovativo è accaduto a seguito della legge 180 non è da attribuirsi tato alla forza della legge, quanto alla concreta azione trasformatrice e progettuale di operatori e professionisti che si sono impegnati per una pratica di salute mentale alternativa alla segregazione manicomiale.

Saremmo quindi calati in una fase di oblio: oblio collettivo ma anche individuale, soggettivo. La psichiatria difensiva e protocollare ha così finito per prevalere su quel lavoro di contrasto e riparazione della sofferenza umana che risultava ispirato, animato dalla tensione utopica.

Gli effetti tangibili della dimenticanza si verificano nel prevalere di nuovi tecnicismi, nella dissoluzione dei flussi dinamici che venivano generati dagli apporti pluridisciplinari nei lavori d’équipe (d’équipe, molto più che in équipe), nella prevalenza delle ragioni economiche e aziendali. Ma altrettanto concreti, nella lettura di D’Elia, sono i segni che si leggono nel modello di formazione dei professionisti della psicoterapia: riconosciuti per forza di legge, per mero adempimento scolastico, senza cura dei percorsi etici ed emotivi di costruzione della competenza.

Metodicamente e con precisione D’Elia elenca ed analizza quali siano le utopie concrete, quelle da cui confrontarsi con la realtà per modificarla:

  • L’utopia umanista, che pone al centro l’uomo e non le diagnosi ed i contenitori;
  • L’utopia integrativa, che attraverso l’accettazione della follia come condizione possibile mira a costruire le basi dell’integrazione;
  • L’utopia inclusiva, intesa come la possibilità di convivere con la/le diversità;
  • L’utopia partecipativa, ossia la partecipazione delle persone alla gestione della loro salute in maniera consapevole e responsabile: percorso avviato con forza negli anni ‘70 e poi interrotto dai processi di dissoluzione del collettivo e di ritorno alla delega tecnocratica;
  • L’utopia pedagogica, per andare oltre la chiusura dei manicomi e produrre una consapevolezza funzionale a superare anche le soluzioni neoistituzionalizzanti;
  • L’utopia istituzionale, per evitare soprattutto che l’utopia diventi il velo pietoso che copre le contraddizioni (l’istituzione negata ma gestita, la malattia messa tra parentesi e curata, ecc.);
  • L’utopia politica: se la rivoluzione è impossibile, non è però impossibile smontare criticamente la realtà.

Non si può che condividere l’osservazione finale di D’Elia: abbiamo necessità di un’utopia, purché legata a filo doppio alla realtà.

Però siamo ancora a chiederci: perché a 50 anni dall’avvio di un percorso critico e costruttivo, concreto e insieme profondamente teorico ed ideale, dobbiamo ancora provare a riaprire spazi che sembravano già percorsi e percorribili?

Detto in altri termini: quando si chiude lo spazio dell’utopia? Quando il non luogo perde ogni luogo concreto d’azione e di interpretazione? In termini generali questo può avvenire quando gli individualismi prendono il posto degli interessi collettivi. O, in termini ancora più universalistici, quando si perde il contatto con e la fiducia in quel non luogo per eccellenza che è il futuro.

Qui l’incertezza, a nostra volta, è se si debba seguire tenacemente una bussola o se, in taluni casi, non convenga perderla e (navigando tra la metafora ed il modo di dire) rimescolare le carte della realtà alla ricerca di nuovi e più propizi percorsi: per evitare il rischio di una neo-istituzionalizzazione più ingannevole in quanto fittiziamente confortevole.

Come dire: l’approvazione della 180 appariva come un riconoscimento delle richieste di innovazione di quel movimento interpretato da Basaglia; rassicurante e confermativa quindi, ma con il rischio di provocare un calo di attenzione, di tensione. Se, soprattutto, l’attenzione si sposta sulle tecniche “attuative” il viaggio rischia di perdersi, la navigazione di arenarsi.

È il rischio indicato da Thomas More (che del termine Utopia è genitore) quando racconta cosa succede a fidarsi troppo degli aghi calamitati che indicano infallibilmente il Nord.

E dice che fece cosa gratissima a quelli mostrando loro l’uso della calamita, il quale non sapevano ancora. Laonde poco navigavano nel verno. Ed ora, fidandosi di quella pietra, navigano ancor nel verno tenendosi sicuri; quantunque potrebbe tal sicurezza per l’imprudenza causare loro molti mali.

 Rischio probabilissimo: soprattutto quando le bussole funzionano male.

 

Riferimenti bibliografici:

Franco Basaglia, Crimini di Pace, Einaudi Nuovo Politecnico, 1975

Franco Basaglia, L’Utopia della realtà, Einaudi Piccola Biblioteca, 2005

Thomas More, Utopia, Liber Liber, 2018

(1) Antonello d’Elia è Psichiatra e Psicoterapeuta. Docente dell’Accademia di Psicoterapia della Famiglia, Vicedirettore della Rivista Terapia Familiare, attualmente è Presidente di Psichiatria Democratica.