Scuola e DSA. Quando la diagnosi non fa il paziente: la versione di Galimberti

Galimberti-Andreoli-Cardini

Il filosofo Umberto Galimberti, in una intervista a Tg24, ha sostenuto l’ipotesi secondo cui nella scuola si sarebbe affermata ed esisterebbe una medicalizzazione e patologizzazione degli alunni, tese unicamente a giustificare le carenze nell’apprendimento in modo da ottenere una via preferenziale verso il minimo risultato che consenta una promozione agevolata.

La presa di posizione di Galimberti ha scatenato molti commenti che però non risultano essere una risposta univoca alla questione sollevata, ma anzi sono espressione spesso di opinioni divergenti. Tra quelle che più emergono vi è quella che identifica la posizione del filosofo come superficiale e pressapochista e non curante dei reali disagi degli alunni. A fare da contrasto a questa opinione ce n’è un’altra che riportiamo dal web: “finalmente qualcuno che dice le cose come stanno” che si allinea al pensiero espresso dal filosofo. Sempre tra le opinioni discordanti invece troviamo quella secondo la quale non c’è stato un aumento di casi come dislessia o discalculia ma semplicemente una maggior attenzione al problema.

Perché patologizzare tutte le insufficienze? Ci sono troppe diagnosi? Si cerca troppo il problema?

Oggi i numeri del Ministero per l’Istruzione ed il Merito indicano che le diagnosi sono in aumento.

Ma cosa sono i DSA e come si manifestano? Queste patologie sono dislessia, discalculia e disgrafia. Secondo degli indicatori c’è stato un repentino aumento di questi casi tra i giovani.

Bisogna tener conto che, come sostiene il sito www.aiditalia.org: “Infine, la questione che anche di recente ha dato vita ad esternazioni e polemiche: il presunto aumento esponenziale delle diagnosi. In realtà, l’andamento storico segna un costante quanto limitato incremento dal 2010, anno in cui è stata emanata la legge 170. Il report del Ministero rende in grafica questo aumento – partendo dallo 0,90% dell’a.s.2010/2011 al 6% dell’a.s. 2022/2023 – che si assesta più o meno allo 0,5% in più ad anno.

Proviamo ad esprimere anche noi un punto di vista: è vero che una diagnosi non è la soluzione del problema. Riteniamo però che ci dovrebbe essere una scuola a misura di alunno, attenta e che sappia riconoscere un disagio -qualora ce ne sia uno- formando insegnanti in grado di dare una risposta adeguata al problema ogni qualvolta si ponesse in atto.

La scuola deve avere rispetto per le difficoltà dei singoli alunni, ed essi non devono però essere identificabili con le loro diagnosi.

In accordo con la dottoressa Stefania Andreoli pertanto sosteniamo che sia l’insegnamento a doversi adeguare alla richiesta d’aiuto dello studente che non va ignorata. La scuola deve aiutare il discente senza perdere la sua centralità didattica, la sua autorevolezza.

Inoltre come detto dalla terapeuta Franca Cardini, che osteggiando la posizione del filosofo, sostiene che non si possono abbracciare più rami del sapere come se nulla fosse. In altre parole non tutti sono esperti sul tema delle neurodiversità e sono affidabili su questo argomento. Non basta essere psicologi, bisogna avere una preparazione specifica nel campo dei disturbi specifici dell’apprendimento.

Il tema riteniamo sia molto più complesso di quello che Galimberti vuol racchiudere in poche parole, un sistema scolastico oggi deve tener conto delle diversità, andando incontro alle singole sfide, di un mondo sempre più eterogeneo e meno omologabile rispetto alle classi di un tempo.

Tornando all’ambito scolastico siamo coscienti che uniformare il sapere di una classe è pressoché impossibile: occorre quantomeno che la scuola sia aperta alle diversità e almeno nelle intenzioni provi ad accogliere tutti essendo consci che molto spesso la diversità è una ricchezza.

Leggi anche:

Umberto Galimberti e l’esplosione del selfie: le nuove frontiere (più ampie) del narcisismo

“Se prendi un brutto voto…”: l’inchiesta di Skuola.net sul rapporto genitoriale