Umberto Galimberti e l’esplosione del selfie: le nuove frontiere (più ampie) del narcisismo

Umberto Galimberti e l’esplosione del selfie: le nuove frontiere (più ampie) del narcisismo

Un articolo de “La Stampa” dal titolo “L’autoritratto è indecente” riporta l’idea del filosofo Umberto Galimberti sul tema dell’autoritratto o, per dirla secondo il linguaggio contemporaneo, del “selfie”. Secondo il filosofo, l’autoscatto è il punto più alto del narcisismo umano: si tende a volersi rappresentare da soli “per paura che l’altro possa dire qualcosa di sbagliato o di male nei propri confronti”.

Quando si va per musei – definiti da Galimberti “la tomba dell’arte” – si tende più a voler fare foto alle opere e condividerle sui social, piuttosto che “godersi” la visita: così si finisce per appiattire l’intera esperienza riducendola alla visione di uno schermo.

“Io mi faccio un selfie, tutti si fanno un selfie, io sono tutti”: con questo sillogismo aristotelico giochiamo a riassumere la società di oggi, dominata dall’avvento dei social e dall’autoritratto digitale, oltre che dall’assenza di una propria personalità.

“Chi guarda sé stesso è fuori da ogni relazione. Solo l’altro dice chi siamo”: fin dai tempi dei greci e dei latini, la relazione con l’altro è qualcosa di fondamentale e ci rappresenta, in un modo o nell’altro.

Il selfie come simulacro di perfezione è null’altro che una proiezione evanescente di sé: ma del resto non è autentica. Aristotele diceva che “Le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori e non esistono.”

Questo non fa altro che rimandare al selfie come una iperbole mediatica priva di fondamento.

Questa imperfezione della ricerca della perfezione è uguale ad una distorsione di sé come le ombre proiettate all’interno della caverna nel racconto platonico. Bisogna uscire dalla doxa (opinione superficiale e variabile) data dall’immaginario evanescente del selfie, quindi delle ombre sulle pareti della caverna per trovare la verità nella spontaneità.

Per Galimberti è “soltanto una farsa” ricercare l’altro in privato, si continua a preferire l’isolamento piuttosto che la socialità di persona. C’è anche una sostanziale differenza tra cercare gli altri e farsi vedere da questi ultimi: il selfie ha proprio quest’ultima funzione, quindi qualcosa di puramente egocentrico.

Recentemente agli Uffizi c’è stata una sorta di “mostra” con il tema centrale dell’autoritratto, a partire da quello donato da Yan Pei Ming, noto come il “Pittore di Storie”. Secondo Gabriella Giannachi, il selfie è tutta una questione di comunità e conformismo: ci si scatta foto per segnare il nostro passaggio in luoghi dove sono stati anche gli altri, utilizzando anche hashtag rilevanti per descrivere l’autoscatto.

Più like e followers si hanno, più si pensa di essere qualcuno e importante: in realtà, però, questo è soltanto presenzialismo senza sostanza, senza un qualcosa di rilevante ai fini della valorizzazione della nostra identità. Tutto ciò a detta dello stesso filosofo.

L’artista – secondo lo stesso Galimberti – è una persona molto debole perché si fa attraversare da tutti gli stimoli esistenti; non come gli uomini forti che sono impermeabili e innalzano muri che non consentono agli stimoli di accedere alla propria persona.

Un altro esempio della nocività dei selfie è inerente anche ai femminicidi: se prima le donne uccise erano rappresentate con la foto del documento nei mezzi di informazione, adesso sembrano soggette a una sorta di voyeurismo social. Alla fine dei conti nel ritratto non ci si può riconoscere perché è una cosa osservata e non una persona con cui si è in relazione.

A dispetto di ciò, i selfie o autoritratti sono molto diffusi e continueranno ad esserlo, perché sono il modo in cui si fa parte del mondo dei social network: una socialità alternativa rispetto a quella usuale, che sta prendendo sempre più piede e superando la seconda.