Disuguaglianze e Salute Mentale

Disuguaglianze e Salute Mentale

“Ci sono sempre falsi profeti. Ma nel caso della psichiatria è la profezia stessa ad essere falsa, nel suo impedire, con lo schema delle definizioni e classificazioni dei comportamenti e con la violenza con cui li reprime, la comprensione della sofferenza, delle sue origini, del suo rapporto con la realtà della vita e con la possibilità di espressione che l’uomo in essa trova o non trova”

Franco Basaglia

“Bisogna organizzare la società in maniera tale per cui ogni individuo, uomo o donna, possa trovare, nell’arco della sua vita, uguali mezzi per sviluppare le sue diverse facoltà”

Mikhail Bakunin

 

“Tutto ciò che ha valore nella società umana dipende dalle opportunità di progredire che vengono accordate ad ogni individuo”

Albert Einstein

 

I fattori che intervengono nel favorire la nascita e il decorso di una malattia psichiatrica non sono singolarmente necessari né sufficienti.
La componente biologica, parte integrante della “combinazione” dell’umano, non è esente da questa regola; da sola non è in grado di determinare il disturbo.
È necessario che si correli con altri fattori ambientali affinché la patologia possa manifestarsi pur essendo altrettanto difficile stabilire l’impatto che un fattore di rischio possa avere sulla sua insorgenza.

Di solito, è molto più semplice rintracciare i fattori di rischio che hanno determinato l’insorgenza e lo sviluppo di una malattia psichiatrica in un singolo individuo piuttosto che affermare con certezza che uno specifico fattore di rischio abbia una responsabilità “oggettiva” e indiscussa sulla comparsa e sull’andamento delle malattie mentali.

La salute mentale e i disturbi mentali non sono concetti contrapposti; il nostro lavoro ci ha insegnato che salute mentale non è “solamente assenza di disturbo mentale”.

L’Organizzazione Mondiale della Salute definisce la salute mentale come “uno stato di benessere in cui ogni individuo possa realizzare il suo potenziale, affrontare il normale stress della vita, lavorare in maniera produttiva e fruttuosa e apportare un contributo alla propria comunità”. Quindi, da una parte, l’assenza di disturbo mentale non significa necessariamente presenza di una buona salute mentale, dall’altra, persone con un disturbo mentale possono raggiungere buoni livelli di benessere, vivendo un’esistenza soddisfacente, piena di senso e produttiva nei limiti dei sintomi dolorosi, angoscianti o debilitanti di cui soffrono.

Salute, quindi, come “bene capitale” (le persone in buona salute dispongono di un valore economico superiore rispetto a quelle in cattiva salute, grazie alla loro capacità di essere economicamente produttive) e come “bene di consumo” (il contributo offerto da uno stato di buona salute al benessere o alla soddisfazione di una persona).
Come spesso accade con i nostri pazienti più gravi, invece, il raggiungimento di questo equilibrio possibile risulta difficile da consolidare quando, a fronte di una stabilità clinica, di un’assistenza sanitaria presente e di stili di vita riportati ad un livello sufficiente di adeguatezza, siano assolutamente insoddisfacenti le risorse sociali ed ambientali che dovrebbero costituire il connettivo che lo sostiene ed incentiva.

Gli studi, non tanti in quanto difficili da realizzare e, spesso, contraddittori, ma effettuati in vari ambiti della medicina e in varie zone della terra con diverse demografie, dimostrano che l’assistenza sanitaria incide al massimo per il 15-25% sui risultati sanitari; in altri termini, il mancato accesso alle cure e all’assistenza sanitaria e gli stili di vita non sani sembrano avere un impatto relativo sull’insorgenza delle malattie. Non ci si ammala e si guarisce solo perché c’è un agente patogeno, responsabile della malattia ed una cura efficace che viene realizzata da personale formato, in un ambiente e con strumenti e mezzi adeguati.

Sullo stato di salute insistono un insieme di variabili, i cosiddetti determinanti sociali della salute (social determinants of health, SDOH): stili di vita personali, disponibilità di reti di sostegno sociale, condizioni di vita e di lavoro, accesso all’istruzione e consapevolezza dei vantaggi derivanti dalla stessa, occupazione, assistenza sanitaria, alimentazione, servizi di welfare, abitazioni, trasporto pubblico e altri comfort. Ovvero come le persone vivono la propria vita e le condizioni relazionali e sociali favorenti o ostacolanti il proprio benessere alla loro nascita, durante la loro crescita, nel reperimento e mantenimento della propria attività lavorativa, come invecchiano.
È naturale, quindi, che lo stato di benessere di ciascuno di noi risentirà fortemente anche di spinte economiche, politiche e ambientali interconnesse tra loro, esercitate a livello globale, nazionale e locale.

Le disuguaglianze che si vengono a creare, di conseguenza, ricorsivamente, hanno origine e ricadono sia sullo stato di salute sia sullo stato sociale al punto da non riuscire a determinare una gerarchia ma una netta relazione tra i due: uno specifico gene patogeno, per esempio, potrebbe essere espresso in presenza di un evento scatenante derivante dai SDOH.

La povertà e le privazioni sono al primo posto nella scala dei fattori che creano disuguaglianza.

Per ciò che riguarda la salute mentale, non sembrano esservi prove evidenti che la riduzione della povertà possa comportare un beneficio alla salute mentale di una popolazione, ma è provato che la malattia mentale abbia un ruolo rilevante nel mantenere le condizioni di povertà e da questa ne risulti aggravata.

L’OMS sulla relazione tra deprivazioni sociali e salute mentale si pronuncia nella seguente maniera:
– La Salute mentale e molti disturbi mentali sono plasmati in larga misura dal contesto sociale, economico, e fisico in cui le persone vivono.
– Le disuguaglianze sociali sono associate ad un aumento del rischio per molti disturbi mentali.
– Agire per migliorare le condizioni di vita quotidiana da prima della nascita, durante la prima infanzia, in età scolare, durante la creazione del nucleo familiare, nel corso dell’età lavorativa e durante la vecchiaia, permette sia di migliorare le condizioni di salute mentale nella popolazione che di ridurre il rischio per quei disturbi mentali associati alle disuguaglianze sociali.
– Nonostante sia necessario agire lungo tutto il corso di vita, gli scienziati concordano nel ritenere che offrire ad ogni bambino le migliori condizioni di partenza possibili genererà i maggiori benefici sia in termini sociali che di salute mentale.
– L’azione deve essere universale, riguardare l’intera società, ed essere proporzionata ai bisogni al fine di diminuire gli effetti del gradiente sociale.

Le conoscenze, a supporto di quanto detto sono, sinteticamente:
– i disturbi mentali comuni (depressione e ansia) sono distribuiti nella società secondo il gradiente di benessere economico,
– i poveri e i meno agiati soffrono in misura maggiore di disturbi mentali comuni e delle loro conseguenze avverse,
– il 70% degli studi riporta un’associazione positiva tra vari indicatori di povertà e i disturbi mentali comuni. La forza di questa associazione varia a seconda dell’indicatore di povertà usato,
– l’associazione tra basso reddito e disturbi mentali è spiegata, in alcuni studi, dall’indebitamento; più debiti una persona contrae, più probabile è la presenza di qualche forma di disturbo mentale, anche dopo una stratificazione per reddito e per altre variabili sociodemografiche,
– incidenze più elevate di disturbi mentali comuni (depressione e ansia) sono associate a un basso livello di istruzione, ad una situazione di svantaggio materiale, alla disoccupazione, e, nel caso di persone più anziane, all’isolamento sociale,
– il modello di distribuzione sociale dei
disturbi mentali comuni si configura come un gradiente di classe sociale, più marcato nelle donne che negli uomini,
– una peggiore salute mentale è stata riportata nelle donne, nei gruppi più poveri e tra coloro che riferiscono uno scarso supporto sociale,
– c’è una correlazione biunivoca tra disturbi mentali e status socioeconomico: i disturbi mentali portano ad un reddito ridotto e a un impiego peggiore, consolidando una situazione di povertà che a sua volta aumenta il rischio di disturbi mentali,
– modelli di disuguaglianza nella distribuzione sociale emergono già prima della vita adulta,
– una revisione sistematica della letteratura ha mostrato che la prevalenza di umore depresso o ansia è 2,5 volte più frequente tra giovani dai 10 ai 15 anni con basso livello socioeconomico che tra giovani con elevato status socioeconomico,
– tra i bambini dai tre ai cinque anni, la frequenza di difficoltà socio-emozionali e di comportamento appare inversamente proporzionale rispetto al valore dell’abitazione come indicatore di posizione socioeconomica.

L’ipotesi che correla stato sociale e disturbo mentale si basa su livello, frequenza e durata delle esperienze stressanti che la persona vive fin dai primi momenti della sua vita (addirittura, secondo la teoria della trasmissione transgenerazionale della vulnerabilità, ancora prima che nasca o quando è in concepimento, in caso di contesto familiare deprivato dal punto di vista sociale, sanitario, culturale ed economico).

 

Le risorse individuali, la capacità di mitigare il distress attraverso l’accesso ai supporti sociali e sanitari, le abilità a fronteggiare le situazioni e ad adattarvisi (coping) sembrano contribuire a ridurre gli effetti di questa interazione.

 

Le persone più in basso nella scala sociale corrono maggiori rischi di sperimentare condizioni sfavorevoli che 1) le pongono già precocemente in posizione di svantaggio, 2) tendono a ripetersi e ad accumularsi nell’arco della propria vita e 3) contribuiscono in maniera significativa ad aumentare, tendenzialmente, il proprio stato di vulnerabilità.

Secondo la Commissione sui Determinati Sociali della Salute istituita dall’OMS negli anni 2005-2008, c’è un legame diretto tra reddito e salute, chiamato gradiente sociale di salute, presente non solo nei paesi in via di sviluppo, ma anche nei paesi più ricchi, rivelandosi un fenomeno universale, per cui le persone più svantaggiate socialmente corrono un rischio almeno doppio di essere colpiti da malattia o morte prematura rispetto a chi si trovi nei piani più alti della piramide sociale. Gli indicatoti più evidenti sembrano essere quelli riguardanti la mortalità infantile e le aspettative di vita: il rapporto tra ricchezza e salute mette in risalto come la mortalità infantile aumenti in proporzione ad un sempre più basso reddito familiare così come l’aspettativa di vita che si riduce in proporzione alla condizione di povertà: se si è poveri, quindi, si rischia di morire prima. Stessa tendenza si ritrova nell’analisi dell’utilizzo dei sistemi sanitari; anche in questo caso, le percentuali di accesso ai servizi, alle cure e ai trattamenti sono più alte tra le famiglie con maggiori redditi. La conclusione è la stessa: se si è poveri si rischia di ammalarsi di più.

 

Le fragilità spesso si sovrappongono impedendo alle persone di sviluppare capacità sociali, di accesso alle cure a all’assistenza, di resilienza e adattamento.

Gli stili di vita rischiano di essere sempre meno sani per cui quando si sovrappongono disoccupazione, svantaggio economico e sociale, malattia il rischio di trasmissione transgenerazionale della vulnerabilità diventa quasi una certezza.

 

Se il circolo vizioso non potrà essere interrotto, si può presumere che vulnerabilità genererà ancora più vulnerabilità: il bambino vulnerabile diventerà un adulto vulnerabile, un povero continuerà ad essere sempre più povero, un malato diverrà sempre più malato.

 

È come se alla medicina venisse affidato un compito impossibile da realizzare.

Occuparsi delle persone e curare malattie dal punto di vista tecnico non avendo la possibilità di incidere sulle differenze nell’assistenza sanitaria, sulla distribuzione ingiusta del potere, delle risorse economiche e di ogni altro tipo di risorsa che influisca in maniera immediata e visibile sulle loro condizioni di vita e sul loro benessere.

Se è vero che le cattive condizioni di salute dei più poveri hanno un impatto significativo sulle possibilità di ammalarsi, la medicina rischia di fornire l’illusione della cura non potendo essere in grado di incidere su di esse.

Perché tutto questo interessa anche noi, operatori della salute mentale del servizio pubblico?

 

Molti potrebbero dire che queste considerazioni sono fuori dal seminato o che l’operatore sanitario debba occuparsi di questioni tecniche o che tutto questo è ideologia a buon mercato (anche i pronunciamenti dell’OMS?): “la giustizia sociale sta diventando una questione di vita o di morte. Sta influenzando il modo di vivere della gente, la probabilità di ammalarsi ed il rischio di morire prematuramente. (…) La giustizia sociale sta finendo insieme alla vita di moltissime persone.” [CSDH (2008). Closing the gap in a generation: health equity through action on the social determinants of health. Final Report of the Commission on Social Determinants of Health. Geneva, World Health Organization, 2008. (Commissione sui Determinanti Sociali di Salute, OMS, Rapporto finale, Agosto 2008)].

 

Avere un quadro delle condizioni sociali dei nostri pazienti e delle loro famiglie potrebbe aiutarci ad orientare il nostro intervento seguendo con attenzione le situazioni nelle quali il rischio di deriva transgenerazionale della vulnerabilità e il gradiente sociale di salute giocano un ruolo fondamentale nel mantenimento e nello sviluppo della malattia mentale.

Non solo, però, come analisi del contesto avulso dal progetto terapeutico, bensì come parte integrante di esso, con l’obiettivo non solo di ridurre la sintomatologia clinica, ma di guardare verso l’orizzonte del miglioramento delle condizioni di esistenza e del benessere delle persone inteso come qualità della vita.

Se è vero quanto detto, infatti, il miglioramento della sintomatologia, nelle situazioni di cui ci stiamo occupando, se non si accompagna ad un progetto di miglioramento delle condizioni di vita, rischia di essere vanificato a causa del circolo vizioso al quale si accennava.

 

Nicola Butera