Come il dolore può essere fonte di ispirazione: l’investitura poetica di Alda Merini

Come il dolore può essere fonte di ispirazione: l’investitura poetica di Alda Merini

Il 1° novembre 2009 muore Alda Merini.

Una donna si sfiora i capelli mentre si racconta nei suoi versi scritti e parlati, con una luce leggera che entra dalla finestra. Questa è Alda Merini, poetessa di fama internazionale che compare sulle pagine del Novecento come una donna dal nobile animo ma di modesti natali. È artista versatile, suona il pianoforte fin da piccola prendendo lezioni da Arturo Benedetti Michelangeli.

Autrice prolifica di numerose opere, sia in prosa che in versi, ci lascia un patrimonio poderoso sia di scritti che di sentimenti.

Racconta il suo passato in numerose interviste, molte delle quali realizzate nella sua casa ai Navigli milanesi.

Già all’età di 15 anni la Merini scrive poesie quasi per gioco, di cui una “Santi e poeti” viene notata e pubblicata su un giornale famoso.

“Il pensiero di chi legge poesia è aperto verso altri orizzonti”.

La poesia è, per l’autrice, principalmente apertura verso nuovi orizzonti ed esercizio di scalfitura continuo della realtà; ciò a noi interessa particolarmente come soluzione salvifica al dolore derivato dalla segregazione manicomiale che è durato complessivamente per la poetessa, circa dodici anni. Si tratta di un periodo che, come lei racconta, l’ha ferita profondamente nell’intimo ma, allo stesso tempo, l’ha aiutata a capire.

Comprendere più che perdonare, capire ciò che si cela dietro i meccanismi subdoli della segregazione e dietro scelte pericolose, oltre che arbitrarie, tra cui quella dell’internamento forzato.

Un virtuoso parossismo quello della vena creativa di Alda Merini, che ci regala anche rime apparentemente non studiate; e una traccia sedimentaria che rende la sua poetica riconoscibile. Tutte le sue pagine scritte e recitate respirano la stessa aria, di una certa evoluzione, dello stesso sottofondo musicale.

Ce la immaginiamo oggi, come una donna con delle forme ormai decadenti, ma non prive di fascino, che non ha remore nel posare nuda per la pittura e l’arte fotografica.

Metafore, metonimie, anafore, ossimori poetici caratterizzano la sua gestualità poetica. Gesti che delineano la follia secondo la Merini. Ma la follia non è pazzia, dice la poetessa.

“La pazzia non esiste, ma fa comodo.”

Fa comodo anche pensare che esista in quanto al servizio dei potenti; che esista per la scienza psichiatrica, senza la quale non avrebbe senso parlare di malattia mentale, come qualcosa che va curato nell’alienazione.

La poesia come strabordare di passione, di sentimento, di peccato, e di sensualità. La poesia come straripare di verità bene o mal celate. La poesia figlia e sposa dell’ancella povertà.

“Secondo me non bisogna continuare a perdonare, un pochino di arroganza va bene anche per i poeti”.

La poesia è una cosa larga, ampia trascrizione di solitudine, quella solitudine agognata che solo i poeti provano e non invano.

“Alla base della follia c’è una continua frustrazione dei rapporti […] Nel mio caso, la soluzione all’umiliazione è stata la poesia”.

La poetessa è stata ricoverata in un ospedale psichiatrico all’età di sedici anni per la prima volta nel 1947: non sapeva quali brutture, castighi e, allo stesso tempo, piacevoli sorprese le avrebbe riservato l’esperienza in manicomio. Del resto, cosi giovane, non poteva prevederlo. Era completamente ignara, non avendoli mai visti, degli ospedali psichiatrici. Con una primissima diagnosi di schizofrenia ebefrenica dunque la Merini inizia una lunga degenza in manicomio, in più fasi.

Alda Merini si rivolge anche ai giovani con cui, però, ha un rapporto ambivalente perché questi ultimi, non avendo attraversato l’orrore delle guerre mondiali, non conoscono il senso di sacrificio e di umiltà. Esprime questo concetto con sagacia nella seguente poesia:

“A tutti i giovani raccomando aprite i libri con religione,

non guardateli superficialmente,

perché in essi è racchiuso

il coraggio dei nostri padri.

E richiudeteli con dignità

quando dovete occuparvi di altre cose.

Ma soprattutto amate i poeti.

Essi hanno vangato per voi la terra per tanti anni,

non per costruirvi tombe,

o simulacri, ma altari.

Pensate che potete camminare su di noi

come su dei grandi tappeti e volare oltre questa triste realtà quotidiana.”

“Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima,

il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola

come una trappola da sacrificio,

è quindi venuto il momento di cantare una esequie al passato”

da “La vita facile” (1996, edito da Bompiani)

Questa poesia rappresenta un’esortazione a non dimenticare il passato trasmesso attraverso i libri; i giovani devono avere rispetto, riverenza nei confronti della letteratura, ma soprattutto dei poeti.

La scrittrice esprime irrequietezza e consapevolezza allo stesso tempo: noi, allo stesso modo, possiamo sentirci irrequieti se costretti in spazi che non ci piacciono, così come lei negli anni vissuti in manicomio.

In questo accorato appello ai giovani Alda è stata, alla fin fine, una di noi anche sotto questo punto di vista e lo rimarrà sempre, soprattutto per le generazioni a venire. Tuttavia rimane un essere inimitabile nella sua unicità.

Poetessa e modello per chi verrà, Alda ci ha lasciato vari aforismi tra cui uno sulla comparazione della felicità propria con quella altrui, ammettendo come “la migliore vendetta sia la felicità (stessa)”.