Si può vivere passivamente la vita? È un controsenso biologico non avere un peso nelle proprie scelte? Non decidere? Recidere ogni contatto con la realtà? Abbandonare la società? L’isolamento è una condanna a morte che ce lo fa recepire come tale un ancestrale istinto di sopravvivenza? Serviamo il branco o la ragione o quest’ultima è asservita al primo?
È proprio qui che sta il terreno di scontro, la continua tendenza dell’essere umano ad essere migliore affrancandosi dal suo tempestoso passato tribale dove la sopravvivenza all’interno del clan era (o lo è ancor oggi) tutto. Quando noi riflettiamo, pensiamo e ragioniamo sulla società e veniamo incontro con il pensiero alla sua brutalità, potrebbe apparire quasi legittimo ritirarsi verso qualcosa di più nobile, come la solitudine? Non è detto che essere inseriti a pieno titolo nella società corrisponda ad essere eticamente puliti, anzi. Molto spesso si va al compromesso, tante volte bieco ed immorale. L’ambiguità sembra essere una delle qualità cardine della gente pienamente inserita nella società. L’ambivalenza sembra essere propria del successo ma la purezza per essere tale non può essere che sia e non sia allo stesso tempo, l’ontologia parmenidea dell’etica dev’essere scevra dal vizio. È qui che l’hikikomori ha il suo riscatto, nella fuga dal compromesso, il ricatto etico sociale per eccellenza. È quel salto nel vuoto suicida del “non essere” sociale per sbocciare nell’essere dell’etica. Un terreno quello della solitudine dove non c’è da servire l’idolo della competizione, ma si trova una quiete comprensiva. Nell’assenza si trova la propria presenza. Questa è l’essenza degli hikikomori. Trovare la pace in un non stato, in un non esserci. Questo è per spiegare il fenomeno a livello di essenza per non provare pregiudizio, ma è indubbio che l’isolamento cronico dalla società non è sempre una virtù ma bensì una sofferenza. Alla base di ciò c’è il concetto di privazione che incide sull’individuo. Privazione della stima altrui. E se è vero che la solitudine può essere un riscatto, essa è solo un palliativo poiché la relazione è tutto.
Il fatto di rinchiudersi in sé può derivare da episodi di sopraffazione, come a scuola con il bullismo. Ed è qui che entra in gioco la relazione con l’altro nella sua più cruda immanenza che non risparmia colpi a nessuno, ma la relazione con l’altro può essere anche con uno psicologo. È proprio nel creare più ponti possibili con la società che si gioca la partita dell’inclusività e della relazione. Gli hikikomori sono delle persone che si ritirano socialmente poiché non riescono a gestire la pressione del mondo esterno; molto spesso questi giovani (di età compresa tra i 14 e i 30 anni) sono completamente estraniati da tutto, non studiano e non lavorano, conseguenza a una sentita inadeguatezza nei confronti del mondo e dei pari, a una elevata difficoltà a interagire, a traumi e abusi subiti come già enunciato per le vittime di bullismo.
Sorge una domanda: per essere al livello epistemologico bisogna per forza essere con o si può essere da sé? È importante trovare degli spazi per sé ritagliati all’interno di un contesto sociale, è impensabile d’altronde pensare alla parola stessa “società” come ad un gruppo costituito da persone che non si incontrano mai, quindi ad un gruppo non gruppo, un agglomerato che non è e che per essere tale ha bisogno della massima integrazione tra le sue componenti.
Ad occuparsi di loro c’è nel nostro paese attiva l’associazione Hikikomori Italia, che lavora sul recupero delle persone che si trovano in questa situazione, affrontando insieme a loro e alle loro famiglie la difficoltà.
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