Alcuni ragazzi raccontano che “L’inverno è doloroso, fa freddo e sono triste. Anche la primavera è dolorosa. Sono tutti euforici ed io sono invidioso. L’estate poi è dolorosa da morire”.
Gli Hikikomori sono giovani per la maggior parte che si ritirano dalla vita sociale chiudendosi in casa. Annullano attraverso l’isolamento, quello che nella società è per loro più ostico: la relazione con gli altri.
L’etimo Hikikomori, tradotto in italiano ritiro sociale, è stato inserito nella letteratura internazionale dallo psichiatra giapponese Saito Tamaki, esperto nel campo.
Si tratta di una categoria trasversale rispetto a quella dei depressi o schizofrenici che si unisce a quella dei NEET – Not engaged in Education, Employment or Training – cioè i giovani che non studiano e non lavorano. La società attuale della globalizzazione ha contribuito all’incremento di questi fenomeni poiché viene esaltata la dimensione individualistica a scapito di quella collettiva.
Inizialmente, negli anni ’50, si afferma come un fenomeno prettamente orientale e successivamente giungerà in occidente divenendo così un problema di più ampio respiro. Gli Hikikomori non sono soltanto un fenomeno globale ma anche specifico del contesto culturale in cui nascono.
Secondo il rapporto del CNR (il Consiglio Nazionale delle Ricerche) sul disagio relazionale, i minori si isolano nella loro stanza per sfuggire alla fatica dei rapporti. Vediamo nello specifico qualche numero.
In Italia 54.000 adolescenti si definiscono Hikikomori. Ragazzi in fuga dalla realtà, in fuga da loro stessi e dal mondo.
Il disagio si manifesta maggiormente in un’età compresa tra i 15 e i 17 anni.
La pandemia ha peggiorato ulteriormente le cose: se escludiamo il periodo del lockdown, il 18,7% degli adolescenti non è uscito per un tempo significativo. Tra questi l’8,2% non è uscito per un tempo da 1 a 6 mesi e oltre.
C’è da dire che in 1 caso su 4 genitori e insegnanti hanno accettato senza porsi domande la scelta di isolarsi socialmente.
Altro dato significativo da riportare è che a livello nazionale l’1,7%, ossia 44.000 unità, sono gli studenti che si possono definire Hikikomori.
Tra le cause dell’isolamento c’è l’attaccamento ai social e al web. Sbagliato pensare che la soluzione possa essere costringerli ad uscire o staccare internet; sono escamotage che possono provocare l’effetto contrario.
Altro dato che risalta è quello relativo alla percentuale dei giovani a rischio grave di sviluppare la sintomatologia che si porta al 2,6% ossia 67.000 giovani.
In generale, comunque, in Italia 150.000 ragazzi hanno problemi di socialità. Bisogna dire però che gli Hikikomori non sono asociali come si può pensare in modo semplicistico; non si tratta di una malattia da curare con un farmaco: serve l’appoggio dei genitori e l’interessamento del mondo adulto di riferimento.
Gli Hikikomori, da quanto si apprende, sono dunque un fenomeno in rapida ascesa, per questo ci preoccupa. Se vogliamo arginarlo dobbiamo, ognuno nel proprio piccolo, fare qualcosa per cambiare e migliorare la società in cui viviamo. Dunque serve una piccola rivoluzione fatta di comunicazione, empatia, ascolto che deve capillarmente attraversare i vari tessuti sociali.
Non per ultimo serve uno sviluppo del senso critico, perché è fondamentale che i ragazzi maturino fin da subito una capacità di esprimere sempre e comunque la propria opinione su ciò che gli succede al fine di non chiudersi in se stessi.