Questo titolo è stato scelto di proposito e non è frutto del caso. L’ultima parte di questo è un piccolo verso tratto da una predica che Van Gogh fece di un dipinto in Inghilterra di Boughton, il Pellegrino sulla via di Canterbury al tempo di Chaucer.
Van Gogh, artista prolifico, è in costante bilico tra due inclinazioni: la passione per gli umili, i minatori del Belgio, e quella che egli riversa senza limiti nella propria arte. La bilancia su cui poggiano questi contrappesi è la follia.
Van Gogh si può dire essere l’artista del paradosso, dove la sua forza sta proprio nelle sue ferite da cui sgorga il sublime artistico. Ed è proprio il processo di sublimazione che trae nutrimento dai suoi travagli interiori e, comparabilmente, dalle sofferenze degli ultimi a cui egli era sensibilmente affine. I dipinti sono la meta positiva, eppure sofferta, di un tentativo di fuga continuo dal dramma della realtà circostante, oltre che da una Natura che è in maniera leopardiana “madre e matrigna” al tempo stesso.
Van Gogh è prima di tutto Vincent, una figura che si sostituisce fin dai primordi a quella del fratellino nato morto prima di lui. La storia psicologica del pittore olandese di fama mondiale è in primo luogo la storia di una nominazione e allo stesso tempo di un movimento di anti-nominazione che gli fa da contraltare. Le sorti di Vincent sono destinate a rimanere molto personali, a slatentizzarsi poco alla volta, mentre è Van Gogh che otterrà il successo come pittore tagliando il traguardo della vita all’età di soli 37 anni. Muore infatti suicida in una notte di luglio del 1890.
La pittura è per l’artista olandese travaglio nella follia, una Cosa (Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, 2014) da vivere nella sua sacralità profonda, avanguardia del gesto, pennellate di colore oculatamente studiate.
Van Gogh si avvicina all’arte pittorica giovanissimo così come si era avvicinato poco tempo prima alla purezza del cristianesimo, alla dimensione del divino, dell’assoluto. Il fulcro magmatico della sua arte plastica risiede nel colore. Il colore è il vero protagonista delle sue sperimentazioni. In un certo uso del colore sembrano riverberarsi le tendenze fideistiche e l’aspirazione di certe tematiche evangelico-cristiane di cui Vincent non era a digiuno.
Vincent era molto attento alle relazioni umane cosi come al significato che queste potevano rivestire per lui, per il suo microcosmo romantico. Tra tutti prevale l’icona del fratello Theo con il quale avrà sempre un rapporto molto confidenziale. Meno importante, tranne che dal punto di vista extra-familiare e professionale, è invece Gauguin. Da questi infatti il pittore prenderà le distanze dichiarando che tra di loro si era venuta a creare una certa incomprensione. Come quasi tutti i pittori di fama, anche l’arte plastica di Van Gogh sembra essere attraversata da alcune fasi diverse, eppure simili, che ritornano come nel pensiero di Nietzsche. L’asimmetria nell’uso del colore, seppure armonica, è una delle modalità che caratterizzano le sue tele e le ispessiscono. Una certa quantità di follia è racchiusa nel segreto delle sue scelte coloristiche.
Vincent è dunque diviso tra due polarità, quella dell’espressione religiosa e dell’espressività artistica. Fa della sua vita religiosa una missione così come dell’arte pittorica. Come per un effetto compensatorio e come appoggiandosi ad una specie di teoria dei vasi comunicanti l’inconscio dell’artista deborda ma mai troppo perché sorretto e contenuto dalla plasticità della forma. La tela saprà sempre compensare e contenere lo sconfinamento mentre sarà, Van Gogh stesso che ad un certo punto della sua esistenza, non saprà più controllarsi e porre un argine al sommovimento interiore del suo magma pulsionale ed estro creativo.
È il volto dei santi che Vincent rivela in molte sue epistole di voler rappresentare intendendo con questa espressione il volto sacrale della natura, dei paesaggi, degli umili e delle cose. Ed egli desidera farlo con tutta la vividezza possibile del colore e la forma, la sagoma che è intrinseca al colore stesso. Un esempio è offerto dalla tela raffigurante il paesaggio verdeggiante della clinica di Saint Remy dove V.G. fu ricoverato verso la fine della sua anonima carriera.
Schizofrenia, psicosi, stato depressivo, sono solo termini vuoti di senso se non adattati alla vita del pittore. Egli dipinge mosso da una spinta interiore fortissima che spesso non riesce a controllare. Si ammala, forse è pazzo ma la sua arte creativa rivela, oltre al turbamento, anche tanto altro, un altro che è affine all’infinito leopardiano, al gioco di forme e colori. Egli amava definirsi per questo un Colorista Arbitrario, che studia cioè il colore nella sua tavolozza cercando di riprodurre la potenza sconfinata della Natura.
Van Gogh artefice del proprio destino?
L’artista si inscrive nel desiderio narcisistico dell’Altro riflettendo la propria immagine simbolica nell’Altro. Produce molto ed ha nei confronti di sé stesso un rapporto continuamente sbilanciato tra amore e odio.
Egli ha in mano le redini del proprio destino artistico ma non, purtroppo, della propria sorte personale. È per questo che produrrà moltissime opere pur trascorrendo, rispetto alla sua breve vita, molto tempo in manicomio. Porrà termine alla sua esistenza con un colpo di pistola ma sarà ricordato dal mondo per la profondità e unicità della sua arte, per il periodo “giallo”, per le tele impazzite di colori caldi, realizzate nel sud della Francia. Per i vorticismi della notte stellata, per i paesaggi del Sud; per la scelta di soggetti umili come “i mangiatori di patate”; per le “scarpe” come soggetto a cui egli darà rilievo e dignità artistica pur restando fedele al loro carattere mondano.
L’investitura poetica di Van Gogh fa di Vincent un vero artista, un profeta, una persona ipersensibile che non riuscirà a sottrarsi alle ferite di una vita umiliata e che soprattutto i posteri sapranno rivalutare ed apprezzare nella sua organicità confermandosi come uno dei primi espressionisti della storia della pittura dell’800.
Le sue tele rappresentano dialetticamente, nell’atto del presente, il passato e il futuro, la dimensione dell’assenza. L’assenza come fuga dalla realtà convenzionale, dai tentativi di circoscrivere l’esistente, infine di sistematizzarlo. Ed è proprio in questo ambito dimensionale che la mostra, seppur parziale rispetto all’estro totale di Van Gogh, occupa lo spazio del disagio del pittore, immerge l’osservatore in quello che è possibile cogliere per avvicinarsi se non a comprendere la sua arte ad assaporarne il senso del bello e dell’umano.