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Un dirigente di azienda viene denunciato per aver costretto una dipendente a una dieta ferrea e all’uso di clisteri per poter rientrare in una taglia più piccola.
Appena venne assunta, “la socia e amministratrice della società le consegnò un clistere con l’imposizione di utilizzarlo, le impose una dieta ipoglicemica affinché potesse dimagrire e indossare una divisa di taglia media o small, la costrinse a sottoporsi a sedute di massaggi sul luogo di lavoro che lei stessa praticava, le prescrisse degli esami del sangue e le chiese la password per consultarli con la scusa di darle un consiglio in presenza di eventuali anomalie”.
Per la Corte di Cassazione-sezione lavoro con sentenza 1124/2024, la donna è stata vittima di ‘Straining‘, cioè è stata messa sotto pressione dal comportamento stressante e persistente da parte del datore di lavoro. Gli ‘ermellini‘ hanno confermato la sentenza della Corte d’Appello di Brescia che aveva condannato la società a versarle 12.500 euro per il danno biologico e quello morale. Da una relazione medica risultava che la donna soffrisse di depressione a causa del comportamento del suo capo.
Il caso arriva all’epilogo a diversi anni di distanza dai fatti che risalgono al 2013. Dalla ricostruzione dei giudici, basata anche su tre testimonianze e su una mail inviata dalla dirigente dell’azienda “per sbaglio all’indirizzo di posta aziendale in cui l’oggetto era indicato in ‘cerebrolesi’ e nel suo contenuto si parlava della dipendente”, emerge che la donna e altre lavoratrici “furono vittime di condotte vessatorie e lesive della loro dignità personale e professionale che si erano concretizzate in invadenze inaccettabili da parte della superiore gerarchica nella propria sfera intima e personale fino a culminare in denigrazioni e umiliazioni”.
Nella sentenza della Corte di Cassazione n. 1124 del 2024 (sezione lavoro), c’è scritto anche che la vittima dello straining veniva “spesso accompagnata in uno stanzino e lì trattenuta dalla collega più anziana”. La Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla società per la quale lavorava la donna che è stato ritenuto “in parte inammissibile e in parte infondato a fronte dell’ “ampia motivazione dei giudici di secondo grado”.