Semantica interculturale della parola abitare. Il viaggio delle radici

Semantica interculturale della parola abitare. Il viaggio delle radici

Dal 14 al 16 novembre si è svolto a Roma il Festival Tracce #3, trait d’union tra la psichiatria francese e quella italiana.

Questa edizione del Festival Tracce ha avuto come tema di fondo l’abitare, pertanto si è deciso di prendervi parte e di dare un contributo quanto più possibile pregno e denso di significato riguardo la semantica della parola stessa “abitare“. Di seguito riportiamo il testo dell’intervento.

Abitare

Per il Centro Studi di via Monza è un piacere prendere parte, in forma molto breve, allo spunto di dibattito sull’abitare. Pertanto in questo brevissimo viaggio logico si esplorerà la semantica di questa parola ed altre parole strettamene connesse con essa.

Partiamo quindi da 2 presupposti o meglio da 2 domande che compaiono preponderanti.

Dove abitare, sottinteso avere (latino habere) una dimora ? Con chi abitare? (quest’ultima potrebbe apparire non necessaria ma la relazione è tutto ed è fondamentale per la cura).

È inevitabile che in senso più esteso alla domanda “Dove abitare?” coincida un fattore di sicurezza che, si deve (per dovere istituzionale) e si può, ricollegare al co housing, ed è proprio il “con chi” che evidenzia il carattere aggregativo dell’uomo che viene definito non a caso “animale sociale”. Esplicando nel clan o gruppo di appartenenza la sua attività sin dagli albori giunge pertanto ad una struttura odierna più composta chiamata società. Oggi questa composizione fatica a dirsi veramente globale a causa dei vari conflitti che si svolgono e che in forma più o meno grave hanno accompagnato purtroppo la storia dell’uomo. Anche durante i periodi più bui il momento aggregativo poteva risultare come un unguento all’imperversare di calamità, contrasti o malattie pensiamo per esempio al livello concettuale al Decamerone di Giovanni Boccaccio dove l’aggregazione in una villa medioevale fuori Firenze e il raccontarsi delle storie faceva da contrasto alla peste del 1300. Ritrovare convivialità nella segregazione era la chiave per sconfiggere l’isolamento; e lo è tuttora. Ed è proprio questo a cui mira il co-housing, la coabitazione gestita dalle Asl. Quest’unione è rappresentata meravigliosamente nella semantica dal greco antico “oikia” che mette assieme il concetto della casa fisica (un insieme di mattoni) con le persone (un insieme di affetti).

L’affetto e il tepore familiare è lo stesso che ricercava Ulisse nell’Odissea durante il suo nostos, il suo viaggio per mare di ritorno a casa che ricalca il concetto classico del kuklos, del ciclo. L’uscire dalla propria staticità del sé che oscilla verso l’altro configurandosi nell’alternanza “del filo di Moebius” non orientabile tanto caro a Rovatti, è come un viaggio verso altre frontiere che implica necessariamente un ritorno al Sé.

Dopo questo peregrinare è necessario fermarsi ad un punto di approdo che rifulga sia come house (la casa fisica in inglese) che come home (gli affetti nella medesima lingua) ed è qui che inizia la vera cura costituita dalla relazione.

Antitesi di tutto ciò è pertanto la struttura manicomiale dove il concetto fisico di casa non corrisponde affatto con un trait d’union affettivo, e perché non può essere altro che così? Perché lì la cura consiste nell’opprimere e nel dividere dalla società e non nel creare una relazione.

Grazie al moto basagliano si è consentito di riconnettere le persone al tessuto sociale, e di collegarle progressivamente ad un’unica grande home, facente parte di un’unica casa più vasta chiamata società, composta da più cellule, che sono le nostre case.