Un contributo da parte della Dottoressa Annunziata Roncone, Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica della UOC Salute Mentale Penitenziaria e Psichiatria Forense del Carcere di Rebibbia, sull’importanza di riconoscere i segni precoci di crisi all’interno di interventi di psicoeducazione con pazienti con disagi psichici.
“In questo periodo sventurato di detenzione, purtroppo, mi sento su un crinale e sono terrorizzato dall’idea che la malattia si possa riacutizzare e quest’esperienza traumatica riattivi un episodio psicotico acuto”
Nel contesto detentivo il disagio mentale assume forme insidiose, spesso amplificate dalle condizioni di reclusione.
La gestione della salute mentale all’interno del carcere rappresenta una sfida complessa, specialmente per i pazienti con diagnosi di psicopatologia maggiore, come il disturbo bipolare. In questi casi, il riconoscimento dei segni precoci di crisi diventa un elemento essenziale per prevenire episodi acuti e migliorare la qualità della vita del paziente.
L’intervento di psicoeducazione è un approccio terapeutico-riabilitativo EBM (Evidence-Based Medicine), volto a migliorare la consapevolezza del paziente riguardo alla propria condizione mentale, fornendogli strumenti per riconoscere i segni precoci di crisi e gestire il disturbo in modo autonomo e più efficace.
L’intervento di psicoeducazione si articola in diverse fasi, partendo da un’analisi delle conoscenze pregresse del paziente sul proprio disturbo e sui meccanismi che ne regolano l’andamento. Viene quindi introdotto un approfondimento sulla natura del disturbo bipolare, con particolare attenzione ai fattori scatenanti e ai segnali precoci di crisi. Durante gli incontri, il paziente viene guidato dal TeRP (Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica) nell’individuare i propri indicatori personali di peggioramento, imparando a riconoscere sintomi specifici che, se non gestiti, possono portare a una fase acuta della malattia.
Attraverso un confronto strutturato, il paziente va ad acquisire strumenti pratici per monitorare il proprio stato emotivo e cognitivo, con l’obiettivo di prevenire il manifestarsi di episodi critici. La partecipazione attiva del paziente favorisce una maggiore consapevolezza del proprio disturbo e delle risorse a disposizione per fronteggiarlo, anche all’interno di un contesto detentivo caratterizzato da stress e limitazioni ambientali.
Un paziente, detenuto nel carcere di Rebibbia, seguito dalla UOC Salute Mentale Penitenziaria e Psichiatria Forense, con un elevato livello di istruzione, ha trasformato un intervento di psicoeducazione in un’occasione di riflessione personale che ha condiviso con l’operatore attraverso la scrittura. L’obiettivo dell’intervento era quello di identificare i primi campanelli d’allarme di una possibile ricaduta, un compito cruciale per la gestione autonoma della malattia.
“Stato di agitazione nervosa accompagnato da ansia e pensieri molto veloci incontrollabili. Questa condizione può essere definita di euforia, mi ricordo in modo caratteristico anche la dissociazione progressiva dalla realtà, con idee paralogiche, senza fondamento, che alimentano quindi ossessioni irrefrenabili e preludono a deliri di onnipotenza, progetti irrealizzabili e la concatenazione di impulsi atti a determinare cambiamenti per me stesso e per gli altri”.
Nel suo resoconto individua come primo campanello d’allarme un’alterazione della percezione della realtà, accompagnata da un’accelerazione del pensiero e da uno stato di agitazione nervosa e ansiosa. Questi sintomi iniziali si manifestano attraverso idee paralogiche (ragionamenti errati) e ossessioni incontrollabili, che possono sfociare in deliri di onnipotenza e progetti irrealizzabili. La progressiva dissociazione dalla realtà è segnalata anche da un incremento della rabbia, spesso incontrollata, e dalla difficoltà crescente nel mantenere la concentrazione su attività quotidiane, come lo studio e la lettura. Il paziente sottolinea come l’“agitazione psicologica” influisca negativamente sul sonno e sulla capacità di regolare i propri pensieri, rendendo impossibile qualsiasi distrazione costruttiva. Viene descritto come a questi pensieri sempre più veloci ed incontrollabili si aggiunge una dissociazione progressiva che anticipa un vero e proprio delirio “non alieno da momenti di rabbia incontrollata”.
“L’agitazione psicologica è progressivamente più intensa e provoca anche disturbi del sonno e difficoltà di concentrazione, allontanandomi dalla mia attività di studio e di ricerca; risulta, pertanto, impossibile leggere e scrivere con attenzione e in modo produttivo in quei giorni”.
In questi momenti di vulnerabilità, il carcere si trasforma in una vera e propria trappola in cui il senso di isolamento acuisce il malessere e il “sentimento di diffidenza verso il prossimo”, in un ambiente sovraffollato e caratterizzato da una costante minaccia alla fiducia interpersonale. Il senso di isolamento e la diffidenza nei confronti degli altri detenuti e del personale possono esasperare le fragilità preesistenti, rendendo ancora più difficile l’accesso alle risorse di supporto.
La testimonianza di questo paziente evidenzia l’importanza della psicoeducazione nel contesto penitenziario. L’acquisizione di consapevolezza sui segni precoci della di crisi consente di attuare strategie di intervento tempestive, come l’uso di tecniche di autoregolazione emotiva, la richiesta di supporto psicologico e l’adesione alla terapia farmacologica prescritta.
Un intervento efficace prevede anche il coinvolgimento degli operatori penitenziari e sanitari, che devono essere sensibilizzati sulla gestione dei pazienti affetti da disturbi psichiatrici, per garantire un ambiente detentivo più sicuro e meno stressante. La creazione di spazi dedicati ad attività terapeutiche-riabilitative strutturate può contribuire a ridurre il rischio di ricadute e a migliorare il benessere complessivo delle persone private di libertà e sofferenti per disturbi mentali, come descritto nella riflessione del paziente, definendoli “una dimensione più familiare, di accoglienza e supporto, che rende meno spaventosa la reclusione…. Un’oasi di pace in un contesto quotidiano di convivenza forzata segnata da violenza, tensione e prevaricazione”.
In conclusione, il riconoscimento precoce dei campanelli di allarme di una fase acuta e la promozione di interventi psicoeducativi rappresentano strumenti fondamentali per la gestione della salute mentale in carcere. Il percorso di consapevolezza e auto-osservazione intrapreso dal paziente preso in carico dalla UOC SMPPF di Rebibbia dimostra come, anche in condizioni di forte limitazione della libertà, sia possibile lavorare sulla prevenzione delle ricadute e sulla tutela del proprio equilibrio mentale.
Dott.ssa Annunziata Roncone
Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica
UOC Salute mentale Penitenziaria e Psichiatria Forense
Per approfondimenti
Intervista alla Dott.ssa Annunziata Roncone, TeRP di Rebibbia Nuovo Complesso