I cento comandamenti. Il carcere raccontato dall’interno di un esperienza interiore

I cento comandamenti. Il carcere raccontato dall’interno di un esperienza interiore

Un giovane di Alcamo (ha soprannomi ed appellativi molto peculiari, a seconda dei contesti e delle relazioni: ma non un nome) per allontanarsi da una triste esperienza esistenziale si trasferisce in una città del Nord. Anche questa città non ha un nome, ma ha delle caratteristiche assolutamente specifiche. Ad esempio: ha il mare; e un carcere.

Quando il giovane di Alcamo comincia a lavorare nel carcere della città del Nord ha inizio un processo di osservazioni minuziose in cui nessun particolare è irrilevante: un movimento (quasi di camera, di lente fotografica) di esplorazione e di introspezione.

L’esplorazione di un universo rinchiuso, quello del carcere, in cui ogni soggetto umano ha una identità che si distingue: osservato quasi al microscopio ma senza perdere attenzione al sistema di rapporti e di legami che strutturano la comunità confinata; identità che però prendono senso e significato soprattutto dalla sopravvenienza dei rapporti con l’esterno.

L’introspezione rispetto alla propria condizione di uomo libero ma bloccato: incapace di ritorno a casa; incapace di averla, una casa; di fare i conti con la propria sofferenza: cristallizzato in una reclusione stipendiata:

“Ma alla fine l’unico scemo che resta sono io?” ”Tu a casa ci puoi tornare, ma non vuoi”.

C’è in questo romanzo un continuo dualismo, un gioco di dicotomie e di rispecchiamenti che inevitabilmente, ma non forzatamente, trovano una sintesi. Avvicinarsi e allontanarsi, stare dentro e stare fuori, essere colpevoli e vittime, scegliere o aspettare che qualcosa arrivi a cambiare il corso degli eventi. All’interno di una antitesi di ruolo e funzione evidente: quella tra il secondino (secondo di qualcun altro) e il recluso; tutti e due gli elementi sottoposti però ad un unico regime di tradizioni, regole, leggi che entrano nei rapporti reciproci con la forza dei Comandamenti.

I Cento Comandamenti affronta, letterariamente ma con una evidente competenza, molti degli elementi che trattiamo in queste pagine: la follia e la sofferenza mentale – quella vera, che porta ai suicidi tanto dei reclusi quanto degli agenti penitenziari (la domenica non aiuta (…) non è un caso che i suicidi in carcere abbiano una percentuale elevata nel weekend); e quella simulata, quando risultare matti può portare alla valutazione della non imputabilità o a un trattamento non carcerario nella esecuzione della pena. C’è la questione dell’assistenza sanitaria in carcere (sarebbe bastata una tachipirina per sconfiggere il dolore. Tutto il dolore). C’è la contraddizione dell’istituzione che vuole essere cura quando spesso è genesi di malattia.

Lasciamo una domanda per i lettori: per il giovane di Alcamo l’esperienza carceraria sarà un percorso di autopunizione o di riscatto? Di contenimento del dolore o di liberazione?

Perché siamo d’accordo con Alessandro Ogliani: alla fine la vera prigione è il non poter scegliere; e forse, davvero, la vera follia non è essere strani: ma il non vivere.

 

I CENTO COMANDAMENTI, di Alessandro Ogliani, Albeggi Edizioni