“Temo di vivere abbastanza per vedere cose che pensavo la Storia avesse definitivamente bocciato, invece erano solo sopite.”
Lliliana Segre
Il 27 gennaio del 1945 il campo di concentramento forse più conosciuto del mondo, Auschwitz – Birkenau, venne liberato dalle truppe sovietiche. Questo giorno venne scelto come Giorno della Memoria, una giornata internazionale indicata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 2005 per ricordare lo sterminio del popolo ebraico, e tutti coloro che furono deportati nei campi nazisti (già precedentemente introdotta in Italia con la Legge n.211 del 20/07/2000).
Si chiama Giornata della Memoria, appunto, per invitare a non dimenticare. Ricordare i fatti realmente avvenuti è, in qualche modo, fondamentale per evitare che vengano ripetuti gli errori del passato. E sembra un passato molto lontano quello della Seconda Guerra Mondiale, ma così non è, perché quello che è successo porta con sé degli strascichi importanti ancora al giorno d’oggi. Nazismo, fascismo, sono parole che continuano a circolare, ideologie non sepolte, e forse anche poco conosciute da chi le utilizza come mantra.
Da dove viene il termine Olocausto, utilizzato per descrivere il massacro della popolazione ebraica? Secondo la Treccani è una “Forma di sacrificio praticata nell’antichità, specialmente nella religione greca e in quella ebraica, in cui la vittima veniva interamente bruciata (…) rappresentava la più completa espressione del culto offerto a Dio e consisteva nel bruciare la vittima sull’altare. Le vittime erano animali.”
Negli ultimi decenni viene utilizzato un’altra parola, Shoah, un termine ebraico più pertinente. Significa «tempesta devastante», dalla Bibbia, per es. Isaia 47, 11 e viene preferito a Olocausto poiché non richiama l’idea di un sacrificio inevitabile.
Noi ne vogliamo aggiungere un’altra: eutanasia. “Azione od omissione che, per sua natura e nelle intenzioni di chi agisce (eutanasia attiva) o si astiene dall’agire (eutanasia passiva), procura anticipatamente la morte di un malato allo scopo di alleviarne le sofferenze.”
Nel contesto del periodo Nazista, la parola eutanasia venne usata come eufemismo per indicare il progetto di uccisione sistematica dei pazienti disabili e malati di mente ospitati negli istituti di cura sia della Germania sia dei paesi che le erano stati annessi. Eutanasia, dolce morte, indicata come “Il permesso di annientare vita indegna di vita” un trattato filosofico nel quale si affermava che non meritevoli di vivere sono, oltre ai malati incurabili, anche i malati di mente e i bambini deformi o ritardati. Parole, queste, sostenute da medici, da psichiatri. Il giudizio sulla possibilità o meno dell’eutanasia era assegnato a tre esperti che – senza esaminare né le persone né la loro documentazione clinica, ma attenendosi solo a un questionario – in caso di decisione positiva, sotto il termine Behandlung (trattamento) apponevano un segno (+). Questo simbolo serviva ad identificare il suo reale significato nascosto: assassinio. Il questionario, elaborato da un direttivo di psichiatri e amministrativi, lasciava poco spazio alla parte clinica: quello che si voleva valutare era effettivamente il livello delle capacità lavorative.
Una volta individuate le vittime, queste venivano trasportate presso i “centri di eliminazione”. Ad occuparsi di questi trasferimenti il “Servizio pubblico di trasporto dei malati” (Gekrat), creato appositamente, che inviava gli “elenchi di trasporti” agli ospedali dove stavano i pazienti. Entrata nel centro, la persona veniva soppressa nel giro di 24 ore. E fu così che le vittime dell’eutanasia divennero una fonte di organi per la ricerca medica. E l’organo più desiderato era il cervello.
In totale il “programma eutanasia” uccise 71.088 persone.
Non tutti gli psichiatri aderirono al partito nazionalsocialista. Tra questi spicca il professor Gottfried Ewald dell’università di Gottinga, il quale si rifiutò pubblicamente di concedere la “dolce morte”, dimostrando che è possibile opporsi alle cose più disumane nel momento in cui si mantiene la propria integrità, difendendo così anche l’identità. Non sappiamo quanti ci siano riusciti e non.
Quello di cui siamo sicuri però è la sofferenza, il dolore e i traumi che hanno perseguitato i sopravvissuti e le loro famiglie da quel 27 gennaio 1945. E accoglierlo nella nostra memoria significa anche rispettarlo, perché i traumi vanno rispettati, e per fare questo devono essere ricordati.
“Non dimenticate quello che è stato. Noi sopravvissuti abbiamo raccontato e continueremo a parlare finché avremo forza, voi dovrete farlo quando non ci saremo più”
Sami Modiano
Per maggiori informazioni dall’Archivio Storico del Manifesto
Per leggere l’intervista a Sami Modiano in occasione del Giorno della Memoria sul Corriere della sera clicca qui