Sono passati 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia, ma non vorremmo che questa ricorrenza avesse una vocazione agiografica perchè, conoscendolo, non gli sarebbe piaciuto.
Siamo perfettamente coscienti che lui, insieme ad alcuni di noi, ha fatto la sua rivoluzione e passa alla storia come lo psichiatra che ha cambiato per sempre il trattamento del paziente.
Ha ottenuto di far capire al mondo che il manicomio era un’istituzione totale che esercitava un mandato sociale di controllo e non aveva nessun compito o possibilità di cura.
Alla sofferenza si aggiungevano per il paziente la segregazione e gli abusi producendo la famigerata “istituzionalizzazione” che produceva cronicità.
Tutti adesso sappiamo una cosa che detta adesso sembra quasi banale: non si può curare una persona rinchiudendola sine die, lasciandola in condizioni ambientali di segregazione e di isolamento, contenuta a letto, negandone l’umanità.
Una frase abbiamo scelto di citare nel nostro manifesto “la follia è una condizione umana”, un’affermazione scientifico – filosofica di enorme rilevanza. Infatti, la persona va, comunque, oltre il proprio delirio e non coincide con esso.
Crediamo sinceramente che il dibattito sulla questione manicomio si sia veramente concluso positivamente; nessuno in questo momento mette più in discussione che il superamento di quella barbarie sia stato un atto di civiltà necessario.
Ci interessa, piuttosto, aprire un confronto proprio a partire dal pensiero e dall’opera di Basaglia che va oltre la questione “antiistituzionale” che, badate bene, non dobbiamo confondere con l’antipsichiatria (Franco Basaglia, in realtà, non ha mai aderito a questo movimento che si è sviluppato prevalentemente in Inghilterra).
Il nostro compito oggi, per mantenere vivo l’esempio di Basaglia, è conoscere o ri-conoscere la complessità della dimensione umana di cui la psichiatria deve tenere conto nel suo pensare e nel suo agire. Questo è il risultato delle riflessioni fondamentali che hanno cambiato il modo di fare psichiatria nei manicomi.
Condividiamo, quindi, che la follia non disumanizza, non rende alieni; il paziente non perde la sua caratteristica di persona, più semplicemente vive una condizione patologica di angoscia, di incapacità a comunicare, di pensieri e percezioni lontani dalla nostra realtà.
Uno dei primi stereotipi che dobbiamo ancora decostruire, in questo la cultura basagliana non è ancora arrivata a compimento, è quello “dell’incomprensibilità”.
Infatti, il nostro lavoro, per essere efficace, deve essere quello di “dare senso”, “ricostruire il senso” (come ci suggeriva anche Wittgenstein), mentre troppo spesso la valutazione si limita all’osservazione del comportamento ed ancora oggi in alcuni casi alla “repressione” dello stesso.
Per questo difficilmente si ottiene nei servizi l’appropriatezza necessaria alla diagnosi differenziale per una presa in carico efficace.
Il sintomo, privo del suo significato umano, non può essere elaborato ma solo “silenziato”.
Questo è un altro degli insegnamenti fondamentali di Basaglia: “ridare voce” per poter ascoltare e “insieme” al soggetto produrre il cambiamento necessario a migliorare la qualità della vita. Porsi in maniera dialettica (dialogica) verso il punto di vista “dell’altro” senza stigmatizzarlo, “sospendendo il giudizio”.
Insieme, secondo questo approccio, vuol dire rinunciare a quella posizione asimmetrica di potere che induce l’operatore o comunque il cosiddetto “sano” a definire cosa sia più giusto per il paziente, spesso senza cercare di ottenere la sua collaborazione ed il suo consenso. Questo concetto è presente nella Legge 180 (inappropriatamente definita Basaglia): cercare ed ottenere il consenso in tutti i modi possibili prima di attuare misure obbligatorie che comunque feriscono ed umiliano e, quindi, vanno messe in atto solo dopo molteplici tentativi di ottenere compliance e consapevolezza da parte dell’utente.
Non a caso la “questione posta da Basaglia” è anche attinente alla democrazia e ci può insegnare qualcosa che va oltre lo specifico.
I saperi vanno messi a disposizione dell’utente, il suo empowerment è indispensabile alla terapia.
Ancora oggi c’è necessità di una strategia di riconoscimento di diritti che è di per sé terapeutica, per questo parliamo di abitare, lavoro, formazione, inclusione.
Sono questi i temi della presa in carico “complessa”, quest’ultima nasce dalla considerazione, ovvia per alcuni, che oltre al trattamento squisitamente farmacologico (qualche volta abusato) o psicoterapeutico vanno modificati i contesti di vita per ottenere il risultato desiderato (anche l’OMS suggerisce questa visione).
Pare evidente a questo punto che l’isolamento e l’emarginazione siano due componenti che aumentano potentemente la sofferenza mentale.
Non è che essere concordi con le pratiche basagliane significa eliminare la sofferenza mentale, la malattia, ma semplicemente riconoscere la complessità delle diverse variabili che la compongono, aggiungendo un lavoro ed una analisi sui contesti socio – culturali che ci aiuti a capire meglio il nostro utente e ad aiutarlo a modificare le condizioni materiali di esistenza, anche se purtroppo ancora oggi in talune situazioni il trattamento di elezione è quello farmacologico che taglia fuori la componente psichica e quella sociale. Del resto Basaglia non ha mai negato che, un uso oculato degli psicofarmaci, che rispetti la dignità e la libertà della persona, non sia utile a gestire le dimensione psicopatologiche che rendono difficile l’inclusione sociale ma, anzi, ha più volte affermato che i nuovi strumenti farmacologici rendevano ancora più intollerabile la segregazione manicomiale.
L’altro tema centrale è la questione della incurabilità che toglie speranza all’utente e motivazione all’impegno faticoso degli operatori.
Più volte ci siamo resi conto che è la bassa aspettativa e lo scarso investimento che incide nel percorso terapeutico (molto ne ha parlato Tansella dell’Università di Verona).
Anche qui vorremmo sgomberare il campo da un equivoco, incurabile è diverso da inguaribile e su questo è fondamentale non fare confusione.
Per ultimo dobbiamo affrontare il più tragico dei pregiudizi che ancora persiste, quello della pericolosità.
Più spesso di quanto non vorremmo incontriamo questo pregiudizio gravido di conseguenze nel trattamento dei pazienti.
Ancor più nei rapporti con la Magistratura, che, con la corresponsabilità di diversi periti, costruisce con estrema velocità il paradigma incapacità/pericolosità rendendo veramente difficile la posizione degli operatori dei Dipartimenti di Salute Mentale che vengono “schiacciati” dalla famosa “posizione di garanzia” e coinvolti nella funzione di controllo che pensavano di avere abbandonato con la chiusura degli ospedali psichiatrici.
Proprio la deistituzionalizzazione/riabilitazione ci ha permesso di avere certezza, anche statistica, che delirare non corrisponde ad essere pericolosi. L’atto-reato può essere compiuto da chiunque “sano” o “malato”, la diagnosi non è predittiva di nulla.
Proprio in questa fase, dopo la chiusura degli OPG, ci stiamo intrattenendo in gravi difficoltà sulla presa in carico degli autori di reato che vengono prosciolti per incapacità ancora troppo spesso a prescindere da un approfondimento diagnostico adeguato. Anche in relazione a questo tema sono preziosi i contributi di Franco Basaglia che non ha mai dimenticato di riflettere e lavorare per affrontare la contraddizione tra il diritto alla libertà personale e alla cura e la sicurezza di tutti.
In sintesi, quello che vorremmo tenere nel nostro bagaglio è che la psichiatria può essere ciò che Basaglia ha ideato e ha realizzato e che questo richiede un grande slancio ideale e una grande passione umana e sociale per fare rinascere fino in fondo le sue potenzialità terapeutiche e assistenziali, sociali e anche politiche.
È necessario, quindi, “trasformare il sistema della salute mentale (istituzioni e competenze, risorse e poteri, figure professionali e soggetti coinvolti a vario titolo) in un grande rilancio economico e culturale”. La grande scommessa di ieri ed anche di oggi è che l’istituzione aperta deve sostituire, alla segregazione ed ai chiavistelli, altre forme di cura, di contenimento, di sostegno ed anche di controllo attraverso la costruzione di una rete diffusa di servizi e con un personale qualificato.
Basaglia fu spesso dipinto come un esponente dell’antipsichiatria. A lui questo non si piaceva. Lui si considerava uno psichiatra che voleva curare le persone e non le malattie.
Concludiamo con una citazione di Basaglia.
“Si può assistere il folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che essere riusciti a condurre un’azione come la nostra sia una vittoria definitiva. L’importante è un’altra cosa, sapere ciò che si può fare. E quello che ho detto mille volte: noi nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere. È il potere che vince sempre. Noi possiamo, al massimo, convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare”.
“Insomma, vorremmo mantenere la fermezza e la passione del possibile: così Kierkegaard definiva la speranza. Cose che solo Basaglia sulla scia di intuizioni fenomenologiche di indicibile radicalità ha ideato, e ha realizzato” (cit. Eugenio Borgna).