“I feel a little bit guilty leaving”
(“Mi sento un po’ in colpa ad andarmene”)
Sono le parole che pronunciò la fotografa Mary Ellen Mark dopo aver trascorso 36 giorni nell’ospedale psichiatrico di Oregon, nel 1975, per documentare, collaborando con la scrittrice Karen Folger Jacobs, la vita delle donne internate nel reparto 81. Le conobbe sul set del film di Miloš Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo, ambientato in quello stesso ospedale e, l’anno seguente, decise di raccontare, con la sua estrema sensibilità e attenzione per coloro che nessuno ascolta, l’esistenza di queste donne.
“I want to be a voice for the un-famous people… I care about them, and I want people who see my photographs to also care”
(“Voglio essere una voce per le persone non famose… Mi importa di loro e voglio che importi anche alle persone che guardano le mie fotografie”)
Mary Ellen Mark è stata una fotografa statunitense (1940-2015), da sempre interessata ai problemi sociali, agli emarginati. Esordì con un reportage sulla droga a Londra per la rivista Look (1968) e non smise da allora di catturare attimi di estrema umanità, immagini dalle quali traspare la personalità di ognuno dei suoi soggetti. Caratterizzata da una profonda umanità, le sue fotografie sono connotate da una grandissima forza espressiva e, allo stesso tempo, raccontano con onestà e drammaticità la realtà delle persone con cui è entrata a contatto. L’artista ha influenzato, con la sua empatia e sincerità, la fotografia del suo tempo e ha contribuito a mostrare l’esistenza di esseri umani nascosti dal velo del pregiudizio della società.
“Reality is always extraordinary”
(“La realtà è sempre straordinaria”)
Sono immagini dolci e malinconiche (tra queste le donne ritratte nelle vasche da bagno, l’anziana che ride nel letto), ma anche crude e vere (la fotografia di un paio di caviglie legate ad un letto ne è l’emblema). Qualcuna di loro, nell’ospedale di Oregon, era stata lobotomizzata e molte ricevevano l’elettroshock, ma tutte erano considerate pericolose per se stesse e per gli altri. Durante la notte, nel reparto, echeggiava il suono dei loro pianti. Le espressioni delle donne comunicano una storia straziante, ma umana, spingono lo spettatore a guardare oltre ai loro volti spesso persi. Le pose studiate, gli scatti pensati, non interessavano alla fotografa, che forse anche per questo ha sempre tenuto a definirsi una street photographer, con l’obiettivo preciso di documentare e denunciare, per cercare non solo di sensibilizzare ma di provare a cambiare le cose. L’artista, durante e dopo il progetto, ha sempre mostrato un rispetto estremo per quelle donne, era libera dai pregiudizi, era realmente interessata alle loro voci.
“She was feeling lost, bewildered -just as any teenager sometimes does”
(“Si sentiva persa, disorientata – proprio come ogni adolescente a volte si sente”)
“Some of them were funny, some romantic, some social.
You could label them just the way you might label your friends”
(“Alcune di loro erano divertenti, alcune romantiche, altre socievoli.
Potresti definirle proprio come potresti definire i tuoi amici”)
Libera dai pregiudizi, Mary Ellen Mark era convinta che i volti dei suoi soggetti fossero il caleidoscopio delle emozioni umane: osservando il suo lavoro tutto ciò che vediamo è sconcerto, amore, gioia, dolore, rabbia. Non è forse questo a definire un essere umano? Perché allora queste donne sono state definite pazze e sono state escluse, messe da parte e dimenticate? La spiegazione potrebbe essere semplice: perché erano estreme, non sapevano gestire i loro impulsi, erano pericolose, erano, in qualche modo, troppo. Più probabilmente non si è stati disposti a tendere la mano, come la fotografa ha fatto (e molti come lei), a chi soffre, a chi non è sempre estremamente performante e che non riesce a correre insieme ad una società che va sempre più veloce. Ancora oggi si tende ad etichettare ciò che non comprendiamo come sbagliato, inutile o da allontanare. Il mondo ha bisogno, sempre di più e con maggiore urgenza, di persone che si fermino ad ascoltare ogni voce, non solo quella di coloro che sono in grado di urlare.
“They felt a real sense of community. Deep friendships were very important in helping the women get better”
(“Sentivano un vero senso di comunità. Le amicizie strette erano molto importanti per aiutare le donne a stare meglio”)
Mary Ellen terminò il suo lavoro al reparto 81 con 200 rotoli di pellicola, che vennero esibiti a Manhattan e che divennero un libro nel 1976, insieme alle interviste della scrittrice già citata, Karen Folger Jacobs. Grazie al lavoro dell’artista, gli sguardi di quelle donne, le loro espressioni intense, i loro gesti, non sono e non saranno dimenticati. Si è fidata di loro e loro di lei (la Mark ha sempre tenuto ad avere un rapporto sincero e di rispetto con i soggetti delle sue fotografie), talmente tanto da sentirsi a proprio agio davanti alla fotocamera.
“The obsessions we have are pretty much the same our whole lives. Mine are people, the human condition, life.”
(“Le ossessioni che abbiamo restano praticamente le stesse per tutta la nostra vita. Le mie sono sono le persone, la condizione umana, la vita”)
Mary Ellen Mark
Per approfondimenti:
American Photographer Mary Ellen Mark’s Poignant Scrapbook – Ward 81
“I’m Always on Their Side”: Mary Ellen Mark’s Top Quotes on Photography
‘Women we might have been’: sisters and psychiatric wards – in pictures