Con il mese di Marzo si conclude l’anno della ricorrenza del centenario della nascita di Franco Basaglia. È stato un anno in cui si sono moltiplicati gli incontri, gli appuntamenti, le pubblicazioni e anche gli spettacoli teatrali che hanno analizzato, celebrato e valorizzato il pensiero e le azioni concrete della figura a cui, non solo emblematicamente, si deve l’avvio del percorso di riforma dell’approccio alla salute mentale; riforma che, prima che legislativa, deve essere considerata paradigmatica.
Questo può essere quindi il momento di un bilancio: per capire se si sia trattato di una celebrazione agiografica; di una operazione di memoria con un vago profumo di nostalgia; o se invece si sia cercato di rintracciare le origini in cui ritrovare le forze per proseguire in un percorso convintamente e coerentemente riformistico.
Dei rischi, delle prospettive e delle opportunità aveva scritto Ivan Cavicchi, pubblicando nel 2022 il volume di cui riprendiamo il titolo: Oltre la 180.
Della sua analisi – ampia, rigorosa, tecnica quanto epistemica, anche fortemente critica e tuttavia positiva – riprendiamo alcuni passaggi che possono essere utili a far tesoro della spinta al cambiamento che proveniva dal movimento cresciuto anche grazie anche all’azione ed alla teorizzazione di Basaglia.
Innanzitutto, considerando l’aria che tira anche sul piano internazionale, evidenziamo quello che Cavicchi chiama il rischio controriformista. La salute mentale, scrive Cavicchi, è assente dal PNRR; oggi possiamo anche aggiungere che è visibilmente assente anche dall’ultima legge finanziaria. Nonostante almeno 4 disegni di legge che con finalità e intensità diverse si propongono di superare progressivamente o con un balzo all’indietro la legge 180, è da tempo che non si registra una coerente attenzione della politica nazionale che dia una prospettiva al processo iniziato nel 1978.
Ma altrettanto rischioso è l’approccio apologetico, quello secondo il quale la 180 è un tabù pressoché immodificabile. La memoria corre alle valutazioni dello stesso Basaglia, che quando gli si chiedeva cosa pensasse della legge che poi gli è stata intestata, manifestava una palese delusione, quasi un “Tutto qui?”. In un coerente processo riformistico non ci si può accontentare quindi di una prospettiva di semplice rafforzamento di quello che c’è. Certo, le carenze (il personale, gli spazi, i finanziamenti) rendono estremamente difficile assicurare alcuni livelli di assistenza: ma variare le quantità non necessariamente implica quei contenuti riformistici che, potremo dire, significano confrontarsi con la complessità del tema.
Si manifesta quindi anche la presenza di un controriformismo implicito: quello per cui resta irrisolto ad esempio il doppio binario della psichiatria (la chiamiamo così per brevità) pubblica e privata. Il rapporto tra le due è stato sicuramente utile per disporre di una maggiore capacità di risposta alla sofferenza mentale, ma gli approcci appaiono contrastanti e confliggenti: per cui il risultato è che si ammette nel privato ciò che nel pubblico è vietato. Arriva a dire, Cavicchi, che in Italia esista un doppio sistema di salute mentale.
La prospettiva riformista che propone Cavicchi non è una formuletta; è piuttosto una metodologia che parte da un riconoscimento storico. Se la riforma della salute mentale è proseguita in Italia (sia pure in modo disomogeneo) ciò si deve non tanto all’impianto normativo, quanto alle prassi messe in atto dagli operatori della salute mentale. C’è stata nei territori e nei servizi una tensione continua a confrontarsi con una complessità dinamica, che ha prodotto qualità e innovazione.
Da qui l’avvertenza e la prospettiva: occorre la capacità di rigenerare la norma senza che questa ingessi e cristallizzi le capacità operative di chi vive il confronto con la salute mentale: quelli che Cavicchi definisce gli acrobati della mente. Questi equilibristi sono stati e sono ancora in grado di fare quello che la burocrazia non è stata e non sarebbe in grado di fare.
Vogliamo sottolineare ancora due concetti.
Il primo è espresso senza senza enfasi, eppure appare fondamentale: Cavicchi parla di produzione della salute mentale. Produrre salute, in generale, non è contrastare le malattie. L’outcome è prodotto molto più complesso dell’output. La produzione di salute mentale non si misura in indici di frequenza o in numero di prestazioni. È semmai porre in atto politiche pubbliche di regolazione, contrasto, promozione di equilibri che favoriscano una condizione di benessere (come già da anni sostiene il WHO). Quello che vale per la salute in generale probabilmente vale ancora di più per la salute mentale che, quando usciamo dall’approccio organicistico, ha pressoché sempre a che fare con la qualità delle relazioni, con il confronto con le opportunità e con le criticità, con la possibilità di costruire una idea di futuro.
E c’è quindi una congruenza con un’altra delle opportunità/finalità individuate da Cavicchi: quando invita a passare passare dall’approccio basato sul soggetto da curare a quello che potrebbe dare spazio e valorizzare l’intersoggettività che cura.
Se la medicina è una scienza impareggiabile, tanto più impareggiabile deve essere considerata la salute mentale: per il suo confrontarsi quotidiano, funzionale e strutturale con situazioni e dinamiche sempre più complesse e per dover dare quindi risposte che siano pari a tali complessità. Se possiamo ridurre la questione in termini quotidiani, potremmo quindi dire che la salute mentale ha bisogno di opportunità quasi più che di norme.
Oppure possiamo dirlo con le parole dello stesso Cavicchi:
“La conclusione logica è: se non volete dimenticare Basaglia non dovete avere paura di “prendere freddo”. Quindi fate come lui: apritevi al pensiero che riforma.
Ivan Cavicchi, Oltre la 180. Castelvecchi 2022