Lettere da Rebibbia. Una prospettiva del carcere da chi ci lavora e da chi ci vive

Lettere da Rebibbia. Una prospettiva del carcere da chi ci lavora e da chi ci vive
“È difficile, fratello mio, vivere da solo in paese straniero”
I cosacchi – Lev N. Tolstoj

Nel mio ruolo di referente per la formazione della UOC SMPePF ho accompagnato negli anni l’équipe in percorsi dedicati alla transculturalità che, da semplici momenti di aggiornamento, si sono trasformati in spazi di pensiero allargato e condiviso, capaci di accogliere dubbi, intuizioni e nuove prospettive cliniche. Questo continuo dialogo tra il pensare e il fare ha rafforzato il legame tra formazione e pratica quotidiana, nutrendo il lavoro clinico di significati più profondi.

La co-costruzione della formazione con la UOC Tutela degli Stranieri e della Comunità Vulnerabili e la costante disponibilità dello psichiatra Francesco Colosimo, che da lungo tempo accompagna questi percorsi, hanno ulteriormente alimentato questa crescita: la formazione è diventata un luogo in cui ritrovare libertà e fiducia nel pensiero, anche in un contesto complesso e talvolta rigido come quello carcerario.

L’apertura alle realtà e alle risorse del territorio ha svolto una preziosa funzione di mediazione culturale, avvicinando mondi e prospettive differenti e permettendoci di entrare in relazione con l’altro con maggiore competenza, ascolto e sensibilità.

Così, dalla dialettica tra il “dentro” e il “fuori” del carcere, è nato il desiderio di raccontare, in modo semplice ma consapevole, la complessità generata da questo cammino: un sapere condiviso, vivo, che continua a trasformarsi nel dialogo costante tra formazione, clinica e cultura.

 – Dr.ssa Mariantonietta Milelli, Dirigente Psicologo Psicoterapeuta ASL ROMA 2 – 

 

De Viis Manentibus

Scendere in carcere è come varcare l’Acheronte.
Non si entra soltanto in un luogo, ma in un tempo sospeso, dove la luce si smorza e le voci hanno il peso di un’eco lontano. Nel luogo che rende la realtà fantasmatica,
l’operatore sanitario diventa un Virgilio contemporaneo, guida e viandante insieme, che attraversa i gironi del dolore e della burocrazia, cercando di non perdere sé stesso.

Chi resta fuori domanda, ma non sempre si può rispondere.
Ci sono regole non scritte, silenzi che proteggono e imprigionano insieme.
E allora non resta che mormorare — “vuolsi così in questo mondo, e più non dimandare.”

Eppure, il racconto nasce proprio da quel silenzio, nel corridoio oscuro, rischiarato dalla luce dell’incontro con un altro sapere: quello dell’etnopsichiatria, che ci ha insegnato a leggere le ferite dell’anima attraverso le lingue e le culture. La mediazione culturale per traghettare e trovare sosta tra rive lontane.

E così, tra l’operatore e la persona detentuta, si apre un varco.
Lì dove sembrava esserci solo il muro, nasce un ponte di ascolto,
e in quel breve passaggio di parole, di storie, di sguardi,
si intravede la possibilità che anche negli inferni dell’uomo
possa filtrare, a volte, una scintilla di luce.

Quando A. M. arrivò a Rebibbia, l’8 aprile del 2024, il suo sguardo sembrava attraversare le pareti. Non c’era rabbia nei suoi occhi, né paura: solo una distanza immobile, come se nulla di ciò che lo circondava lo riguardasse davvero.

I compagni di sezione lo avevano accolto con diffidenza. La sua diversità — di lingua, di cultura, di modo di stare al mondo — divenne subito un motivo di sospetto. Nessuno gli parlava, qualcuno lo derideva, altri lo evitavano come se fosse contagioso. Isolato, altro naufragio in sé, in balia della corrente, ancora una volta senza punti di riferimento, senza un volto amico, senza voce. Nessuno a sostenerlo, se non la deriva di se stesso.

Nella cella, il tempo si fece lento, quasi immobile. Restava sdraiato per ore, lo sguardo fisso, il corpo abbandonato. Rifiutava il cibo, le cure, ogni contatto umano. Poi i gesti divennero più disorganizzati, il linguaggio si spense del tutto: si spogliava, sputava, lasciava escrementi sul pavimento.
Non era violento, ma perso, come se il confine tra sé e il mondo si fosse dissolto. Sulla sua branda, una zattera in mare aperto.

Il suo percorso migratorio era stato il primo mare da attraversare — un viaggio verso la salvezza che si era trasformato in una lunga deriva, segnata dal rischio costante per la propria vita e dall’impossibilità di riconoscersi ancora in un volto, in una storia, in un nome.
Il carcere era stato il secondo mare, diverso ma altrettanto spietato: un luogo di confusione e spaesamento, dove l’approdo si dissolve ogni giorno, dove essere visto e riconosciuto diventa quasi impossibile.

E poi c’era stato il delirio — il terzo mare, quello interiore.

Non un naufragio, ma un tentativo disperato di restare a galla.

Come un uomo che, non sapendo più nuotare, si aggrappa a un frammento di sé per non sprofondare. Un oceano tra sé e noi.

Il delirio come un salvagente psichico, una difesa estrema contro il dolore di una ferita identitaria che non può essere toccata senza rischiare di disintegrarsi. Una disorganizzazione che non distrugge, ma che protegge: un modo per non dover guardare tutto il dolore, tutto il vuoto. Forse l’unico linguaggio possibile per dire ciò che non può essere detto. Un linguaggio fatto di gesti, di silenzi, di corpi che parlano quando le parole non arrivano più. Un delirio per galleggiare, per non annegare nella storia.

E dentro quel fluttuare caotico, la traccia più autentica di una ricerca: restare vivo, anche solo un po’, anche se tutto intorno è ancora mare.

Il 27 maggio 2024, di fronte a quel naufragio psichico, l’équipe sanitaria decise di intervenire con un Trattamento Sanitario Obbligatorio. Non fu un episodio isolato, ma l’inizio di una presenza continua e costante: più momenti di intervento, più mani tese, più tentativi di raggiungerlo anche quando sembrava inaccessibile. Non era solo un atto clinico, ma un gesto profondamente umano — il tentativo di costruire un ponte verso di lui, di restituirgli una direzione, un contatto, una possibilità. Sottrarlo ai suoi marosi.

Dopo il ricovero in reparto psichiatrico, per un periodo lontano dal rumore delle sbarre e dal giudizio degli altri, A. M. trovò lentamente una forma di sponda, un approdo.
Al rientro dal reparto, per lui un luogo più protetto, sempre in carcere. Un luogo dove, almeno dal punto di vista di alcuni operatori sanitari, poteva finalmente iniziare ad appoggiare i piedi, a uscire da quella deriva che lo aveva consumato. Il contesto protetto, la presenza costante e paziente dei sanitari, la mediazione culturale che traduceva non solo le parole ma anche il dolore, diventarono i primi argini contro il suo smarrimento.
Lì, dove il mare interiore sembrava non finire mai, qualcuno gli tese una mano. E quella mano, questa volta, non lo lasciò più.

All’inizio il silenzio restò. Poi, piano, qualcosa cambiò. Si lavava, chiedeva e guardava negli occhi chi gli parlava.

Accettò noi, e le sue giornate si riempirono di piccoli gesti di ritorno: un “grazie”, un sorriso, una frase in inglese, una domanda su quando sarebbe potuto uscire.

Fu allora che il suo “disorientamento” iniziò a trovare voce e contesto, rivelandosi non come un semplice dato clinico su tre assi, ma come la conseguenza di un vissuto estremo: il naufragio nel Mediterraneo, i sette giorni alla deriva, il continuo migrare tra Germania e Italia, la solitudine, la paura. Una storia che sfuggiva ai confini della diagnosi e chiedeva prima di tutto di essere ascoltata e riconosciuta. Ogni trauma era una cicatrice che il corpo aveva custodito in silenzio, fino a quando la mente non aveva ceduto.

Il TSO e la cura successiva non furono soltanto trattamenti clinici, ma un approdo possibile dopo un viaggio troppo lungo nel dolore.

Ed ora è tempo per Lui di vedersi: chiede di contattare l’Ambasciata del Sudan. Non per un documento, non per un atto burocratico, ma per un bisogno più profondo e di contatto: ritrovare un fratello, un nome, un frammento della sua storia. Per la prima volta dopo anni nomina la parola “famiglia”: come se cercasse, attraverso questa richiesta, di riappropriarsi della propria identità, di riordinare i pezzi dispersi del suo sé.
La risposta non è ancora arrivata, ma quella domanda — quella semplice, ostinata richiesta di contatto — resta lì, come una preghiera silenziosa, come il segno di un uomo che ha ricominciato a cercarsi. Forse la sua psicosi era stata, in fondo, un modo per non dover tenere insieme una storia troppo dolorosa. E ora, nella cura, nei piccoli gesti quotidiani, nelle parole ritrovate, sembra chiedere a qualcuno di aiutarlo a rimettere a posto i pezzi, con la delicatezza che serve quando si tocca qualcosa di rotto ma ancora vivo.

Oggi A. M. non è più il corpo immobile di quei giorni. Si presenta curato, sereno, partecipa, sorride. Ha imparato a dire qualche parola in italiano.

Il suo punteggio di funzionamento globale è passato da 23 a 61: numeri che, nella lingua clinica, raccontano la distanza tra la sopravvivenza e la vita.

Resta un uomo in equilibrio precario, sospeso tra due mondi — quello che ha perduto e quello che non lo ha mai davvero accolto. Ma ora può almeno nominare la sua storia. E quando dice “tornerò in Sudan”, non sembra voler fuggire: sembra, piuttosto, cercare un porto dove poter finalmente fermarsi, dopo troppo mare.

 

“ Terra! Terra  …

Dopo settimane di angoscia  e disperazione,

vedevano finalmente la salvezza davanti a loro:

la terra promessa, la fine dell’oceano sconosciuto” 

– A History of the Life and Voyegers of Christofer Columbus

Washington Irving (1828) –