L’abitare: housing come cura

L’abitare: housing come cura

Non esiste l’essere umano perfetto. Non esisterà mai. Nessuno lo è. Ma a volte lo si dimentica. A volte pretendiamo, aneliamo la perfezione. Crediamo di essere perfetti, ma non è così. Un meccanismo per quanto perfetto si può inceppare, fermare. Non funzionare più bene.

È quello che succede con i disturbi mentali che, secondo le stime europee, colpiscono annualmente circa il 27% (83milioni) dei cittadini (European Social Work, 2013).  Un organismo che prima funzionava bene s’inceppa, o meglio “smette” di “vivere” come ha vissuto fino a quel momento. Non importa se bene o male. Avviene un mutamento: a volte repentino a volte graduale. La mente non funziona più come prima.  Dentro ad essa cominciano ad accadere cose diverse.

Ma cosa c’entra la perfezione, l’essere umano, la mente, con il progetto dell’abitare?

Intanto c’è da dire che è un progetto, per la maggior parte di chi lo intraprende, molto positivo. Si può interagire nello stesso ambiente con altre persone, si deve imparare a collaborare con l’Altro, si crea un gruppo, ecc. Vivere insieme non è facile ma giorno per giorno ci si impara a conoscere e comprendere ed aiutarsi a vicenda. Oltre alle nostre personali riflessioni, esistono studi che mettono a confronto i servizi (community-based) con altri modelli di cura, e mostrano risultati significativamente migliori in termini di compliance, sintomatologia clinica, qualità della vita, stabilità per chi è inserito in progetti dell’abitare e della riabilitazione (Braun P. et al.1981; Conway M. et al.1994; Bond et al.2001).

Questo dovrebbe essere il concetto di auto-cura e, in termini tecnici, rientra nell’idea di housing.

Ma che cos’è di fatto, l’housing?

Esiste la norma UNI 11010:2016 che definisce i requisiti dei servizi per l’abitare e dei servizi per l’inclusione sociale di persone con disabilità (PcD) in età adulta. La norma individua i principi generali e i requisiti a cui l’organizzazione si deve attenere al fine di offrire una pluralità flessibile e differenziata di servizi orientati alla specificità dei profili di funzionamento delle PcD cui sono dedicati, indipendentemente dalla natura e gravità delle loro limitazioni.

Con housing s’intende un processo che favorisce il passaggio dalla relazione d’aiuto all’inclusione sociale. L’housing è strettamente connesso alla salvaguardia dei diritti (cittadinanza, riduzione dello stigma, etc.), alla razionalizzazione della spesa pubblica, allo sviluppo di una cittadinanza attiva e competente: il diritto all’abitare, nel contesto della disabilità, offre un’alternativa a forme d’istituzionalizzazione; l’eccessiva istituzionalizzazione di persone con disabilità mentale incide sulla finanza pubblica e ha ripercussioni sulla qualità dei servizi di cura.

Come abbiamo visto dai dati statistici, ci sono molte persone che soffrono di grave disagio psichico ma, superando le fasi più gravi, attraverso un percorso terapeutico, molti riescono a raggiungere l’autonomia. Nel processo di guarigione, la possibilità di partecipare ad un progetto di housing è importante, anche per poter costruire le relazioni fuori, e quest’importanza è stata il tema di una puntata andata in onda il 4/11/2020 su tg2 per la rubrica medicina 33.

Nel corso della puntata, è stato intervistato anche il Direttore Massimo Cozza, il quale ha sottolineato come stare rinchiusi nelle mura di casa o quasi come all’epoca dei manicomi è stato dimostrato che non è curativo, anzi cronicizza e c’è un peggioramento dei disturbi e una delle autrici di questo articolo, Susanna P. che partecipa ad un progetto di housing. Per chi, come molti, ha problemi psichiatrici è fondamentale reinserirsi nella società, questo si può fare soltanto attraverso un percorso ben definito e comunitario come quello del progetto HERO.

Nella stessa intervista è stata data anche a noi come fruitori del progetto, la possibilità di raccontare la nostra esperienza di housing ed anche io, sono stata intervistata. Di seguito ho sintetizzato i punti salienti emersi.

Il progetto di vivere da soli, per pazienti psichiatrici, per riprendere la propria autonomia, il percorso di cura propone di andare a vivere da soli, con altri utenti, ma in maniera protetta, con il supporto di operatori che ci occupano di aiutarci nella gestione della casa, medici, assistenti sociali, per facilitare l’inserimento nella “vita di tutti i giorni”.

“Durante il lockdown avevo un minimo di contatto sociale con il mondo esterno; è stato difficile perché l’ho vissuto da sola”, racconta Susanna e continua: “Nella casa supportata ho continuato a coltivare i miei hobby, cerco di ritrarre i miei sogni per portarli in superficie”.

Il sentirsi isolati è una delle sintomatologie quando abbiamo disturbi mentali gravi, continua il Direttore Massimo Cozza e conclude che a livello nazionale manca una progettualità proprio sull’abitare e si augura che presto ci sia proprio un discorso di linee nazionali che si diramerà nelle diverse regioni. Una linea che manca e che ci dovrebbe essere, vista l’importanza per la salute mentale.

L’ultima domanda che la giornalista ha fatto agli utenti della casa è stata: cosa vedete nel vostro futuro? La risposta unanime è stata: “adesso si pensa solo a curarsi, uscire da questo tunnel infinito di cure. Si vuole pensare solo a guarire, ad avere più serenità e tranquillità personale”. Esperienze come l’housing possono aiutare nel raggiungimento di questo obiettivo.

Secondo l’OMS, il trattamento comunitario è associato ad un risultato più favorevole, correlato all’aumento della qualità della vita, ad una migliore aderenza al trattamento, ad una diminuzione dello stigma, alla stabilità abitativa e alla capacità lavorativa (World Health Assembly, 2013). […]

L’housing è fortemente collegato all’approccio della Recovery, ormai diffuso e noto a livello internazionale.

Si tratta di un processo complesso che richiede interventi qualificati, l’attivazione di abilità e competenze dei cittadini, in quanto attori delle comunità locali. Vuole quindi sviluppare le comunità locali, orientandoli ai bisogni dell’abitare attraverso forme di apprendimento innovative e attente alle tematiche della salute mentale. […] Questa strategia prevede di ridurre l’esclusione sociale per 20 milioni di persone della popolazione europea.

Tra i progetti di housing, troviamo le attività del “Gruppo Appartamento”, una modalità molto utilizzata sul nostro territorio.

Il gruppo appartamento – sono strutture pubbliche, a grado variabile di protezione e a gestione diretta del dipartimento di salute mentale per utenti con un grado di stabilizzazione della patologia e con sufficienti livelli di autonomia tali da richiedere un supporto sociale e riabilitativo solo per una parte della giornata.
Il gruppo appartamento è pensato e realizzato seguendo le evidenze dei programmi riabilitativi e dei progetti terapeutici individuali e per questo è accuratamente seguito e gestito dal DSM.

Il gruppo appartamento accoglie persone adulte che eventualmente hanno già compiuto un percorso terapeutico- riabilitativo in strutture residenziali e non solo, ma non tutti vi accedono facilmente, il nostro Guido, per esempio dice: “L’esperienza del gruppo appartamento è altamente formativa e serve per trovare una propria autonomia ed indipendenza ed emanciparsi dai propri genitori, ma soprattutto per uscire da quella bolla di protezione che danno i familiari e cominciare ad assumersi le proprie responsabilità sbagliando con la propria testa e provando sulla propria pelle le conseguenze delle scelte che si fanno. Personalmente non ho avuto occasione di provare l’esperienza del gruppo appartamento ma i racconti dei miei colleghi che ci vivono fanno venir voglia di provare, chissà se un giorno quando mi sentirò pronto, anche io mi concederò l’opportunità di poter provare”.

Nella gestione del quotidiano, all’interno di un’ottica riabilitativa, gli utenti del Gruppo Appartamento provvedono ai servizi di base dell’abitazione (spesa alimentare, preparazione dei pasti, pulizia). Oltre che di aiuto agli utenti presi in cura dal servizio territoriale di riferimento, il progetto delle case supportate è anche “formativo” in quanto alcune case scelgono (di comune accordo col servizio territoriale di riferimento) di aprire le proprie porte agli specializzandi che mostrano interesse nell’arricchire la propria esperienza personale con 6 o 12 mesi di affiancamento formativo agli operatori regolari delle case.

L’idea è quella di mostrare allo specializzando progetti paralleli nuovi ed interessanti in ambito di salute mentale e una prospettiva più accurata e realistica dell’utente preso in cura che si ritrova in un ambiente del tutto naturale ed informale come può essere quello di una comune casa.

L’obiettivo del gruppo appartamento è restituire all’utente le migliori opportunità di uscita dal circuito di istituzioni ad elevata intensità assistenziale e caratterizzate da un elevato numero di posti letto, dopo che lo stesso ha conseguito un buon miglioramento clinico e un soddisfacente recupero delle abilità di base e avanzate. Gli utenti del gruppo appartamento rimangono in carico al D.S.M. competente per territorio, che è direttamente responsabile del progetto terapeutico-riabilitativo.

La conclusione del percorso riabilitativo residenziale dell’utente nel gruppo appartamento è definita dall’equipe del CSM che lo ha in cura, in accordo con l’equipe del Gruppo appartamento, sulla base del livello di raggiungimento degli obiettivi previsti nel PTI.

Nonostante i risultati ottenuti attraverso i servizi di housing, si vuole sempre migliorare soprattutto attraverso percorsi formativi il che significa occuparsi di aspetti etici, culturali, di sostenibilità economica, e su questo per esempio si concentra il progetto HERO, voluto fortemente dalla ASL di Roma2 che sollecita le comunità locali a farsi carico di alcune problematiche che possiamo sintetizzare così:

  • politiche dell’abitare carenti, soprattutto nei confronti delle persone con fragilità
  • stigma sociale: spesso le persone con problematiche di salute mentale sono considerate pericolose e sono emarginate
  • l’accesso ai servizi di vario tipo (negozi, trasporto pubblico, luoghi d’incontro, servizi sociali, etc.)
  • relazioni con i compagni di stanza, con i vicini di casa, con le famiglie d’origine
  • uso e mantenimento dell’appartamento dove le persone vivono, le condizioni del contesto, come ad esempio l’inquinamento acustico, il traffico
  • nutrizione, organizzazione del tempo libero supporto allo sviluppo delle abilità individuali all’interno di un percorso che favorisca l’empowerment ed il rispetto dei diritti della persona.
  • Costo e gestione dei farmaci prescritti

Il progetto Hero si basa sulle indicazioni di co-progettazione della legge regionale 11/2016 Lazio ed è stato proposto dal Dott. José Mannu, allora responsabile in ASL Roma 2 della U.O.S.D. Residenzialità, Salute Mentale (Carta dei Servizi D.S.M. 2019). Il progetto è stato ideato nell’anno 2009 e attivato nel 2013, nel piano dell’OMS 2013-2020.

In conclusione i principali obbiettivi di HERO sono:

  1. Costruire un curriculum europeo, integrato con gli indicatori per l’hosing di qualità, per aiutare le comunità locali allo sviluppo di abilità e competenze, alla loro validazione, per la realizzazione di un efficace progetto di
  2. Promuovere l’accesso alla formazione di housing delle comunità locali.
  3. Migliorare la qualità dell’apprendimento informale (lavoro, famiglia, tempo libero) e non formale nel campo dell’inclusione sociale, in relazione con i percorsi di housing nel campo della salute mentale.
  4. Ampliare le competenze chiave degli operatori e dei volontari che operano nel campo dell’inclusione sociale.
  5. Ridurre le diseguaglianze nei risultati dell’apprendimento non solo nelle persone con gravi problematiche di salute mentale, ma anche di quei cittadini che usualmente non prendono parte a iniziative per la promozione dell’inclusione sociale.
  6. Certificare le competenze per l’

Oltre ai progetti di housing e HERO, esiste un altro progetto innovativo, sempre sull’abitare che si chiama progetto IESA. È un progetto per Inserimento Etero-familiare Supportato di Adulti e s’intende l’inserimento temporaneo di una persona che soffre o ha sofferto di disturbi psichici, presso una famiglia di volontari appositamente selezionata ed abilitata.

L’ospitalità è regolata da un contratto tra l’ASL, l’ospite e la famiglia ospitante, in cambio dell’ospitalità offerta, la famiglia riceve un “rimborso spese” mensile e viene regolarmente e professionalmente assistita e supportata dagli operatori di un’equipe preposta. I destinatari del progetto sono: utenti adulti in carico ai Centri di Salute Mentale del DSM-DP. Non è rivolto ad una tipologia specifica di disturbi psichici.

Le tipologie di inserimento etero-familiare possono essere:

  1. Part-time: l’accoglienza si può attuare per “mezze giornate”, giornate intere o week-end. Questa modalità permette sia di rispondere ad “esigenze supportive” della persona che di essere un percorso propedeutico ad una successiva convivenza a tempo pieno.
  2. Full-time: l’accoglienza è sulle 24 ore e per periodi di tempo diversificati:
  • Breve termine: da alcuni giorni ad alcuni mesi, per rispondere ad un bisogno di temporanea decontestualizzazione dall’abituale luogo di vita, motivato da una situazione di crisi del soggetto o dell’ambiente.
  • Medio termine: da alcuni mesi a due anni circa, rivolto ad una fascia d’utenza per la quale è possibile la progettazione e/o il proseguimento di un percorso riabilitativo.
  • Lungo termine: oltre i due anni, prevalentemente rivolto a utenti anziani o “cronici” che per le disabilità psicofisiche od i bisogni di cure assistenziali necessitano di un luogo idoneo di vita.

Entrambi i progetti puntano sull’ empowerment della persona con disagio psichico, l’ambiente familiare favorisce l’identificazione con figure “sane” e abili, rappresenta uno stimolo alla crescita personale ed un supporto utile a migliorare il proprio ruolo sociale.

Consentire un miglioramento alla qualità di vita dell’utente, una crescita dell’autonomia e delle relazioni sociali, favorendo una maggiore integrazione nelle comunità. Dare una risposta alternativa alla “residenzialità psichiatrica” consentendo alla persona con disagio psichico la costruzione di rapporti interpersonali che riducano la “distanza affettiva” ed i disagi correlati alla solitudine.

Infine contribuire alla lotta contro lo stigma e il pregiudizio, che emarginano le persone colpite da sofferenza psichica, cercando di rendere consapevole la popolazione che la malattia mentale è curabile e non di per sé portatrice di “stranezza” e di “pericolo”.

I risultati a tutt’oggi sono complessivamente positivi. Sia quantitativamente, in rapporto alle ore/lavoro dedicate. Sia qualitativamente rispetto alle risposte positive del territorio, delle famiglie e dei servizi. Con il termine empowerment si intende che il nostro fine dovrebbe essere quello di aumentare la possibilità per le persone di controllare le proprie vite.

Questo si traduce in un “protagonismo” e “ partecipazione attiva” del paziente ai processi decisionali connessi ai percorsi di cura, compresa la partecipazione al “rimborso spese” della famiglia, in ragione del proprio reddito.

In conclusione il progetto è sempre centrato sulla persona e ci deve essere una “giusta diversità” nella quale le caratteristiche di un determinato soggetto sembrano collocarsi al meglio.

Purtroppo, nella società odierna la malattia mentale è ancora uno stigma come se non fosse una patologia come un’altra. La malattia mentale non è per sempre, non è perfetto neanche il progetto dell’abitare, ma con molto impegno e buona volontà, il meccanismo inceppato può ricominciare a funzionare.

Susanna Pinto

Guido Rueca

Martina Santillo