Da sempre l’essere umano si interroga su normalità e anormalità, follia e salute. Tutt’ora viene difficile definire e separare le due cose, ognuno di noi le spiega a modo suo, basandosi sulla propria esperienza.
Susanna Kaysen prova a darci questo: non una verità o una risposta universale, ma la sua idea, la sua esperienza, la sua storia. Cos’è la follia? Lei tenta di spiegarlo nel romanzo “La ragazza interrotta”, esprimendo le sue riflessioni sulla malattia mentale e sulle cure fornite per guarire.
È su questo che continuamente lei si interroga, cercando una risposta che la soddisfi.
Per lei la follia siamo noi e lei, ma amplificati: emozioni più forti, più intense, paure più profonde e preoccupazioni impossibili ma improvvisamente molto, molto reali. Come gestire tutto ciò? Come capire a quale parte della nostra realtà credere, come imparare a fidarci di noi stessi? Sono queste le domande che traspaiono dalla storia che ci racconta, domande a cui lei dà delle risposte, che però non possono essere applicate a tutti, in quanto soggettive e frutto di esperienza personale.
Questo libro, in forma di diario personale, ci fornisce un dettagliato, freddo e crudelmente ironico racconto della sua esperienza in quella che oggi viene chiamata “struttura residenziale”, ma che all’epoca era chiamata manicomio. Con tanto di documenti medici allegati, racconta in modo secco e chiaro i due anni da lei trascorsi nel manicomio di State Hospital: a 18 anni, appena diplomata da scuola, Susanna tenta il suicidio, e viene per questo ricoverata nell’ospedale psichiatrico più vicino. La ragazza è inizialmente molto riluttante ad accettare la sua malattia, anche considerando il fatto che è circondata da persone con una sintomatologia più importante.
Quello che sembra solo il diario di una malattia in realtà tratta tematiche problematiche molto attuali tutt’ora, nel mondo della salute mentale. In modo freddo ma al tempo stesso confuso, Susanna ci racconta i suoi pensieri di allora, pensieri quasi “accatastati” uno sopra l’altro, senza un ordine cronologico, probabilmente a causa della confusione che regnava nella sua mente in quel momento.
Nel rapportarsi con il suo malessere, Susanna inizialmente si rifiuta di accettarlo, fa fatica a comprendere di avere un problema, e per questo non si fida dei curanti e delle terapie prescrittele. Anche guardando le altre ragazze ricoverate con lei, con una forte e spaventosa sintomatologia, si sente diversa da loro, si sente sana e questo la convince ancora di più a non accettare le cure. Sceglie invece, giorno per giorno, di riversare tutta la sua emotività, tutte le sue riflessioni, sul suo diario, quello che noi leggiamo, sentendosi non vista, non ascoltata e non valida. Questo ci porta poi a un’altra tematica, purtroppo ancora molto attuale, ma non abbastanza discussa: la legge silenziosa che vige tra due persone malate, per cui esiste una forte competizione a chi sta peggio, con lo scopo di ottenere validazione e attenzione, sia dai curanti, sia dalla società in generale, sia da se stessi.
Fortunatamente, nel caso dell’autrice, questa è una condizione che non persiste troppo a lungo; durante il percorso, infatti, nella mente della ragazza scatta qualcosa, qualcosa che non viene precisato nel libro, per cui riesce finalmente a condividere il suo mondo interiore nella psicoterapia. Da lì in avanti, pur avendo momenti di difficoltà, riesce a capire e accettare il suo malessere, e così facendo anche a imparare a gestirlo.
Il racconto di Susanna si presenta come la narrazione della vita in un manicomio degli anni ’70, ma è possibile che ci sia qualcosa di anche vagamente attuale? Purtroppo, porta a riflettere su molte altre tematiche importanti e inerenti al mondo della salute mentale: quanto è giusto fornire una diagnosi alla persona malata? È giusto che la venga a sapere o si corre il rischio che perda la sua identità e che la persona scompaia dietro un’etichetta crudele? Nel caso di Susanna, poi, il caso la condanna a una diagnosi di ancor più difficile gestione: il disturbo borderline di personalità, che, in quanto tale, va a definire la sua persona, i tratti del suo carattere e gran parte della sua personalità. Dove si trova il coraggio di combattere un disturbo senza il quale non si sa più chi siamo?
A quel punto forse sarebbe più semplice abbandonarcisi, lasciarcisi andare senza farsi troppe domande, e agli errori commessi rispondersi semplicemente che “non è colpa mia, ma della malattia”.
E ciò conduce al controverso mondo della psichiatria e delle strutture residenziali. Susanna fu ricoverata in un manicomio degli anni ’70, ma quanto è diverso dalle cliniche psichiatriche di oggi? La rivoluzione della psichiatria ideata e applicata da Franco Basaglia ha migliorato le condizioni dei pazienti psichiatrici come si crede, oppure c’è ancora quel qualcosa appartenente a quella cultura? Purtroppo, all’interno del mondo della salute mentale, tante delle cose raccontate da Susanna ancora esistono: partendo dal disumano elettroshock, agghiacciante per i più, tutt’ora usato per alcuni casi particolarmente resilienti.
Viene dunque da chiedersi quanto la psichiatria è ancora oggi contenimento e quanto invece sfoci irrimediabilmente ancora troppo, a volte, nella sedazione. La tematica della diagnosi, affrontata anche da Susanna, resta questione fondamentale all’interno di questo mondo. Quanto è sano, quanto è invece limitante dare un’etichetta a una persona già mentalmente instabile? È utile riconoscere il problema, imparare ad accettarlo, ma è giusto annullare il singolo, cancellarne la personalità, vederlo solo come un sintomo, dimenticando che è anch’esso una persona, che semplicemente si è persa nella propria testa?
E per quanto riguarda poi il controverso tema della farmacologia, che, per quanto estremamente utile a contenere il disagio nella fase dell’acuzie, a volte viene usata e abusata, nella superficiale visione di sedazione, fino ad annebbiare il paziente, con lo scopo di evitare di farlo pensare, dimenticando che è anche il pensare stesso che potrebbe salvarlo, aiutarlo a stare meglio. Talvolta si dimentica che si stanno prescrivendo sostanze, che per la maggior parte causano forte dipendenza, a persone che avrebbero anche bisogno di essere ascoltate, affogando i loro pensieri in gocce, pillole e punture. La mente è appannata, lenta, gli occhi si chiudono, sopraggiunge l’ipersonnia. Il paziente viene dimesso, non perché guarito ma perché completamente annullato. Come si può pensare che questa sia la soluzione?