Il Sesto Senso: quando un dono può essere una condanna o la soglia della conoscenza

Il Sesto Senso: quando un dono può essere una condanna o la soglia della conoscenza

Nel seguente racconto non ci sono spoiler di rilievo…potrete quindi godervelo con tutti i sensi (anche se per quanto riguarda il sesto fossimo in voi faremmo un po’ attenzione)…

 

Come puoi aiutarmi se non riesci a credermi?”.

È probabilmente questa la domanda, tratta dal film Il Sesto Senso (The Sixth Sense, 1999, M. Night Shyamalan), che ci mette più a dura prova: quanto si è disposti a mettersi in gioco con l’altro e per l’altro, per riuscire a capirlo?

Quante volte incontriamo bambini con un dono nello scrivere, nel disegnare, o magari nella matematica? Il bambino protagonista di questo film ha tutt’altro tipo di dono, che potrebbe in realtà far pensare a una condanna. Lo confessa lui stesso al suo psicologo, interpretato da Bruce Willis, con la spesso citata frase “Vedo la gente morta…”.

La storia diretta da Shyamalan racconta del rapporto tra il dottor Malcolm Crowe e il piccolo Cole (Haley Joel Osment) e, in parallelo, delle loro vicende personali e familiari. Questo intreccio finisce con il riavvolgersi in un unico filo mostrando che la linea narrativa, in questo modo, viene sapientemente gestita dal regista. Un film commovente e profondo, che lascia spazio a molte riflessioni, colmo di frasi significative pronunciate dai vari personaggi. Ognuno di essi presenta una propria autenticità e complessità, rendendo la pellicola non scontata e particolarmente coinvolgente.

In uno dei primi incontri tra i due protagonisti, Cole si rivolge al dottore dicendo:

“Dovevamo fare un disegno su quello che volevamo. Ho disegnato un uomo ferito al collo da un altro uomo con un cacciavite. Tutti si sono sconvolti. Hanno fatto una riunione. Mamma si è messa a piangere. Non disegno più così. Disegno gente che sorride, cani che corrono… arcobaleni… Non fanno le riunioni per gli arcobaleni!”

Frase significativa ed allegorica che probabilmente rimanda ad una situazione di isolamento. L’individuo cede il passo ad un conformismo bieco che di fondo uccide l’autenticità della persona. Il bambino cerca in ogni modo di non sembrare colui che tutti definiscono come “strano”, disegna arcobaleni per non mostrare il suo malessere, in qualche modo annullandosi per diventare come gli altri si aspettavano che fosse. Dopo tentativi infruttuosi, sentendosi sempre più abbandonato (i compagni di classe lo deridono, la madre non lo comprende) finisce con l’isolarsi e rinchiudersi in sé stesso.

È soprattutto per questo che non si esprime e non racconta a nessuno quello che gli sta accadendo.

“Cosa sto pensando ora?”

“Non so cosa stai pensando ora”

“Pensavo che sei simpatico ma non puoi aiutarmi!”, risponde Cole al dottor Malcolm.

Il bambino ha paura di rivelarsi, tuttavia lo fa nel momento in cui sviluppa un rapporto di estrema fiducia con il suo psicologo.

Forse il vero dono di cui parla questo film è la capacità di fidarsi e dare fiducia. È proprio nella reciprocità di ascolto che c’è la vera comunicazione con l’altro. Sentendosi valorizzato e creduto, Cole riesce a confidarsi prima con lo psicologo e infine con la madre, dimostrando quanto (e perché) sia così importante credere alla persona che si sta aprendo con noi.

Anche nel rapporto terapeutico creare ponti e scavalcare gli ostacoli è tutto. Il dottor Malcolm, in un certo momento del film, cerca di far rientrare Cole in una diagnosi, etichettandolo, definendo il suo malessere come una forma precoce di schizofrenia. È solo scavando a fondo che il dottor Malcolm riesce nell’intento di abbattere un pregiudizio superficiale: sceglie di credere al ragazzo e di analizzare il problema e le cause del suo star male, piuttosto che incasellare i suoi sintomi in una parola, la diagnosi di “schizofrenia”.

Il lavoro dell’analista, così nel film quanto nella vita reale, è ambivalente in quanto lui aiuta il ragazzo a vincere le sue paure interne e quelle esogene al paziente, riguardanti la società. Riesce a trasformare una debolezza (almeno è così che gli altri vedono la sofferenza di Cole) in un punto di forza, mostrando che, anche quando qualcosa ci fa star male o ci fa paura, se impariamo a conoscerla e, come con le persone, ad ascoltarla, possiamo anche capirla e farla nostra. Lo stesso Malcolm, attraverso il bambino, cresce personalmente, lavorando anche su sé stesso: è quando infatti riusciamo a capire meglio noi stessi che riusciamo a relazionarci nel giusto modo anche con gli altri.

Molto spesso l’essere umano non riesce a tollerare ciò che non conosce, abbiamo la necessità di dare un senso alle cose (non a caso il titolo del film), di inquadrarle in degli schemi preesistenti, di etichettarle. Si cerca sempre di restare nella propria “comfort zone”, troppo spesso etichettando il diverso come sbagliato, rifiutandolo. Questo può portare a rifiutare anche noi stessi, se mai dovessimo pensare di essere diversi dagli altri o se qualcuno ci dovesse convincere di ciò.

Quand’è però che un confine rimane tale e quando invece può diventare un’opportunità, uno scambio e un mezzo per ampliare le nostre conoscenze?