Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante. Di Piero Cipriano

Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante. Di Piero Cipriano

“Quel che è sicuro è che quest’uomo non è un essere semplice, come lo sono molti psichiatri”

Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante” è il titolo del libro, pubblicato nel 2015, di Piero Cipriano, psichiatra e psicoterapeuta nato in Irpinia nel 1986.

Nel corso della sua vita ha lavorato in diversi Dipartimenti di Salute Mentale d’Italia, dal Friuli alla Campania, e da qualche anno in un SPDC di Roma. Le esperienze avute, le persone con cui è venuto a contatto e la sua capacità di giudizio lo hanno portato nel tempo a sviluppare un pensiero critico nei confronti della psichiatria contemporanea. Il saggio rientra nella trilogia della riluttanza, che comprende, oltre a questo, La fabbrica della cura mentale (2022) e La società dei devianti (2016).

Questo testo si presenta come un’interessante accordo tra racconti di eventi e situazioni ai quali il dottore ha partecipato in prima persona, fatti di cronaca, storie inventate ma simboliche (da lui definite fiction) e approfondimenti o considerazioni su ricerche e testi. Tra i capitoli, alcuni (ognuno intitolato l’era del manicomio chimico prima parte, seconda parte, terza…) sono stati pensati con l’intento di romanzare il libro inchiesta di Robert Whitaker sugli psicofarmaci (Indagine su un’epidemia; Giovanni Fioriti Editore, 2013).

Lo stesso Cipriano racconta, proprio in questo libro, di come numerosi colleghi fossero convinti che il testo seguisse gli ideali dell’antipsichiatria. Lui è, in realtà, un basagliano (“ringrazio di essere figlio di Franco Basaglia”), e si comprende benissimo leggendo le sue parole (anche se, a volte, il modo in cui lo psichiatra scrive, può risultare poco scorrevole).

Non nega l’utilità dei farmaci, tuttavia condanna la facilità con cui essi vengono prescritti.

“Io seriamente non lo sopporto più che l’unica terapia, per i malanni dell’anima, siano i farmaci”

 

Non si scaglia contro gli SPDC come strumento di cura, ma critica aspramente il modo in cui i pazienti vengono trattati.

“Sanno che la loro crisi sarà una guerra, un combattimento tra loro e i sanitari. E allora anticipano gli eventi. Provocano la contenzione. Si fanno legare.”

 

In quanto psichiatra, non evita di conferire diagnosi, ma biasima l’eccessivo ricorso ad esse da parte dei medici.

“Il vero ribelle, tra pochi anni, sarà colui che non ha (ancora) una diagnosi”

 

Queste considerazioni non possono passare in secondo piano, tanto quanto i dati e le informazioni riportate in due tipi di momenti (che non raramente coincidono): uno prevalentemente informativo e l’altro maggiormente polemico e riflessivo (come i capitoli Fuoco alle fasce o Centoottanta e centonovantaquattro). Le ricerche sull’effetto a lungo termine degli psicofarmaci trattano argomenti di cui non è uso parlare. Non è tanto complottismo, quanto una riflessione attenta sulla consapevolezza che ogni paziente e medico dovrebbero avere. Non si tratta di assumere, prescrivere o meno il farmaco, indispensabile e d’aiuto in moltissimi casi, si tratta di avere le informazioni necessarie per poter decidere, per poter comprendere e sapere a cosa si va incontro.

Diversi capitoli sono inoltre incentrati sul contenimento meccanico. La legge 180 non lo prevede. La Costituzione Italiana non lo prevede. Eppure negli ospedali questa pratica continua ad essere utilizzata. Lo psichiatra dimostra qui, e non solo, una forte empatia nei confronti di coloro che cura: preferisce la relazione alla forza, parlare con il paziente, calmarlo, stabilire un contatto e soprattutto non ledere l’integrità della persona e considerarla tale.

Dunque, il libro non si incentra solo sul farmaco, ma risulta essere una vera e propria richiesta di giustizia, per le persone, per chi deve mettere la sua vita nelle mani di uno psichiatra o di un ospedale. Un atto di ribellione verso una società che tende sempre di più a etichettare e considerare il malato come la sua malattia, non come una persona. La sua empatia è racchiusa nelle sue affermazioni, nel racconto delle sue esperienze (a volte sembrano surreali e fanno domandare “davvero il mondo sta andando verso questa direzione?”), nei suoi ideali e nella forte considerazione che ha dei pazienti.

“Perché i malati mentali cosa sono? Non sono esseri umani?… Per cui un crimine contro i malati mentali è, per definizione, un crimine contro l’umanità”