“Il mio cervello sembrava un campo di battaglia, dove ogni pensiero era un soldato che combatteva contro un altro”
Non deve essere semplice, certo, avere a che fare con una difficoltà mentale, come può essere una serie di pensieri deliranti. Questo si può evincere da questa frase presa dal libro di Gregory Bateson, “Perceval. Un paziente narra la propria psicosi, 1830-1832”, del 1961. Il testo si rifà al racconto autobiografico di John Thomas Perceval, risalente a due versioni, una del 1838 e una del 1840, a cui Bateson ha aggiunto un commento.
Il focus del libro è la narrazione in prima persona di Perceval, figlio di un ex primo ministro inglese, riguardo le sue difficoltà in ambito psicologico e psichiatrico. Internato in manicomi tra il 1830 e il 1832, il protagonista descrive con scrupolosità le sue delusioni religiose, le allucinazioni e il trattamento proprio delle istituzioni private dell’epoca, rivelatesi abusanti e restrittive.
L’intento di Perceval, però, è nobile: lui voleva denunciare le condizioni e le pratiche dei manicomi per incentivare riforme nel trattamento dei pazienti psichiatrici. Egli si era battuto per una maggiore protezione contro gli internamenti ingiusti e i trattamenti medici subiti senza consenso. Tutto ciò è stato inteso come un tentativo di abolizione dei manicomi privati e di un aumento rilevante dei diritti dei pazienti.
Bateson, oltretutto, intendeva l’esperienza del protagonista non come un semplice disagio psicologico e individuale, bensì come un vissuto influenzato dalle sue relazioni familiari e dal contesto istituzionale.
Perceval, nel libro, crede di essere sotto il controllo di spiriti maligni o di forze divine che non gli danno pace. Egli descrive in modo lucido le sue esperienze interiori, cercando di dare un senso alla frammentazione della sua percezione della realtà. La sua capacità di introspezione, nonostante la sua problematica, rende il suo resoconto prezioso per la comprensione della psicosi che vive.
Il lettore vive un’esperienza di lettura dove, oltre a ciò che riesce a cogliere, emerge anche l’importante capacità critica del protagonista. Quest’ultimo descrive con estrema precisione il dualismo tra ciò che vive e gli stimoli esterni che lo colpiscono. La sua narrazione è un tentativo di affermare la sua dignità umana anche nel pieno della follia.
Oltre alla descrizione della psicosi di Perceval, il testo è una critica molto accentuata alle pratiche rese nei manicomi dell’epoca: coercizione, negazione del proprio Io e terapie spesso brutali (oltre che disumane), insieme all’isolamento forzato e alle innumerevoli contenzioni fisiche senza consenso. Il personale medico e infermieristico è descritto come totalmente incapace di comprendere la sua sofferenza e, anzi, come abusante nei suoi confronti.
La guarigione di Perceval è stata un recupero personale, oltre che una rivalsa sociale per gli altri. Il suo racconto, dapprima reso in forma anonima, è un’esplicita denuncia alle condizioni disumane delle strutture manicomiali, al fine di arrivare a riforme legislative.
Il suo impegno nel trasformare un’esperienza privata di dolore in un movimento pubblico per il cambiamento è una delle caratteristiche più rilevanti del libro, sottolineando come sia fondamentale ascoltare anche l’opinione del paziente per rendere migliore la riuscita della presa in carico di chi soffre di difficoltà psichiatriche.
Si pone come un libro da consigliare per chi si interessa dell’ambito psicologico e psichiatrico, oltre al fatto di volerne sapere di più riguardo alle difficoltà date dal disturbo psicotico.