Quanto potere ha su di noi la musica che ascoltiamo? Quel ritmo, quella melodia e quelle parole hanno effettivamente effetto sulla nostra mente e sul nostro inconscio? Ma, soprattutto, possono danneggiarlo o ferirlo in qualche modo? L’opinione dei clinici su questo è divisa: in molti affermano che non sia così, ma altri sostengono che soprattutto nel caso dei giovani che nel disagio trovano conforto e consolazione in essa, la musica possa, se non creare, quantomeno incoraggiare quei pensieri dannosi e disfunzionali.
Se n’è parlato anche nel corso del convegno “La sofferenza degli adolescenti: diagnosi, trattamento, prevenzione, continuità territorio/ospedale-fare la differenza”, nell’aula Montessori del Sant’Eugenio, tenutosi il 25 giugno 2025 e riguardante proprio il disagio giovanile, durante il quale si è molto discusso sulla gestione che gli adolescenti hanno di affrontare il loro malessere. È come se dentro di loro ci fosse un vuoto che percepiscono costantemente e che li fa impazzire, e cercano modi vari di riempirlo provvisoriamente. In particolare, ci si è concentrati sulla produzione musicale di questi tempi, focalizzando l’attenzione sulla vasta gamma di canzoni di repertorio rap e trap, che risaputamente parlano di droghe e violenze, talvolta romanticizzandole, per non parlare poi dell’inneggiare a un modello di vita dove l’ossatura sarebbe costituita da un esibizionismo di un lusso inarrivabile, privo di ogni sostanza valoriale.
Ma è veramente così? Oppure lo spettro della nostra speculazione si può allargare? Il rapper è un modello oppure cerca di convivere con un modello consumistico prevalente? Non potrebbe essere che il rap sia una valvola di sfogo che tramite la musica, la melodia, grida la propria voglia di farsi comprendere e la ferita di sentirsi incompresi? Anche se certe frasi possono risultare un incitamento all’assunzione di sostanze, questo aspetto perché non può risolversi-assolversi come un semplice stereotipo anziché diventare o risultare quasi un ordine? Viene dunque da chiedersi, al di là dei gusti musicali del singolo, che può trovarle o meno canzoni interessanti e ascoltabili, è effettivamente vero che sono dannose per l’ascoltatore, e in particolar modo per i ragazzi? Molti sostengono di si, e che alcuni pezzi lasciano allibiti e sconvolti per la rabbia che tracima dai testi; bisogna certo ricordare che il nostro inconscio, e quello di bambini e adolescenti in particolar modo, è soggetto a stimoli continui, che ovviamente andranno a interessare successivamente il tono emotivo e i pensieri e ragionamenti fatti in seguito. Dunque si capisce che possa essere ragionevole puntare il dito su testi di questo genere.
Ma sembra meno ragionevole il fatto che pare che ci si dimentichi che nel campo artistico e soprattutto musicale si è sempre trattato – dunque non solo nella corrente generazione – il tema di criminalità, droghe e violenze, e che sono stati girati dalle generazioni passate, anche nel campo del cinema, film che trattavano gli stessi argomenti. E inoltre ci si dimentica peraltro che la psicologia regge sul paradosso che seppure bisogna portare chi ha un disagio a risolverlo, o perlomeno gestirlo, non si può rimuovere una ferita che genera un’espressione musicale, ma anzi va accolta, rielaborata e soprattutto resa oggetto di dialogo e non di catalogazione o emarginazione.
Inoltre viene da chiedersi: come mai si parla dei prodotti musicali odierni come qualcosa di scollegato dai valori sociali che imperano non solo nelle generazioni più “nuove”? Ci si dimentica dunque che l’arte rispecchia la società, e non il contrario? Questa musica, così diffusa e ascoltata, non nasce da sola, nasce in una società che sembra capirla, accettarla, e poi successivamente apprezzarla, ma non per semplici gusti, ma perché rispecchia problematiche reali, oggettive, e non solo del singolo, ma di tutti. Qual è il senso, dunque, nel dimenticare il collegamento che esiste, ed è anche sempre esistito, tra società e prodotti artistici e musicali? Invece di restare scandalizzati, perché non provare a comprendere che si potrebbe capire che quelle parole arrabbiate e inopportune non costituiscono un problema, ma casomai si assumono il compito di rappresentarlo, e potrebbero anche essere viste come un tentativo di denuncia di quelle che sono alcune delle criticità sociali?
Ma soprattutto come mai sono accusati questi pezzi aggressivi e tracimanti di odio verso la società e il mondo, e non invece quella grande parte della produzione musicale che straripa di depressione, angoscia e disperazione?
Il mondo pop, indie e rock attuale è pieno di artisti e canzoni che trattano di suicidio e pensieri intrusivi e autodistruttivi (basti pensare alla canzone “Everything I Wanted”, di Billie Eilish, o a “Sabato Sera“, di Mostro), quindi perché non parlare anche di quelli, se la preoccupazione va al mondo musicale a cui sono esposti i ragazzi?
Come mai, ancora una volta, è sotto accusa la rabbia dei ragazzi, ma non la tristezza, quando poi gran parte delle loro sofferenze sono date proprio da una errata e disfunzionale gestione della rabbia? Autolesionismo, depressione, dipendenze… molti dei casi colpiti da queste problematiche sono dati proprio e soprattutto da una rabbia repressa e inespressa, spesso proprio perché all’interno del loro ambiente (per esempio familiare) e nella società generale, la rabbia giovanile e soprattutto adolescenziale non viene capita, e di conseguenza non viene accettata.
Proviamo invece, finalmente, ad accettare tutte le emozioni umane, e non solo quelle che non spaventano e che destabilizzano, perché solo in questo modo si può andare finalmente verso la comprensione, accettazione e infine gestione di queste ultime.
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