Eccentrica, misteriosa, privata. Alcuni degli aggettivi conferiti a Vivian Maier da coloro che la conoscevano. Una street photographer straordinariamente brava e sensibile la cui personalità incuriosì probabilmente più dei suoi meravigliosi scatti che rimasero nell’ombra fino a poco prima della morte della donna. La scoperta delle fotografie è stata raccontata nel documentario Finding Vivian Maier (John Maloof e Charlie Siskel; 2013), un lungometraggio nominato agli Oscar nel 2015.
Nell’inverno del 2007 un ragazzo, lo stesso regista del documentario John Maloof, acquistò all’asta degli scatoloni colmi di negativi che gli sarebbero stati utili per la composizione di un libro storico. Li acquistò a poco più di 200 euro per poi scoprire, dopo averli sviluppati, che quelle fotografie erano estremamente valide, o almeno lui pensava che lo fossero. Non sapeva nulla del loro autore, solo un nome compariva su quelle scatole: Vivian Maier. Cercò su internet ma i risultati non furono soddisfacenti, nessuno sapeva chi fosse questa misteriosa artista. Nel documentario John Maloof dichiarò:
“La mia missione è quella di mettere Vivian nei libri di storia”
La sua ricerca non si fermò: spinto dalla curiosità e dalla voglia di far vedere al mondo quegli scatti secondo lui straordinari, decise di acquistare altri negativi attribuiti a quella fotografa. Iniziò a pubblicare una parte delle fotografie sviluppate, ricevendo moltissima approvazione. La scoperta fu talmente incredibile che gli stessi telegiornali iniziarono a parlarne: “è stata aggiunta una pagina alla storia della fotografia di strada”. Inoltre, riuscì a trovare un indirizzo tra gli scatoloni e, quando chiamò, la vicenda si infittì ancora di più.
“Ho i negativi di Vivian Maier”
“Sì, era la mia bambinaia”
Perché una bambinaia dovrebbe fare queste foto? La domanda che immediatamente si pose Maloof e che, in realtà, si posero anche le persone che la conoscevano dopo aver visto le sue fotografie. Il documentario si sviluppa sulle interviste poste ai bambini, ormai adulti, e ai genitori con cui la Maier visse per anni, lavorando come tata. Aveva sicuramente una personalità complessa, a tratti irascibile, scontrosa, una persona sola e dai comportamenti bizzarri. Molte di quelle persone non avevano idea che lei facesse foto, alcuni se ne accorgevano ma non davano importanza alla cosa, altri ne erano quasi infastiditi.
La caratteristica più importante di Vivian Maier, quella che poi permise al mondo di venire a conoscenza della sua arte, era la sua abitudine nel conservare ogni cosa, dai biglietti degli autobus alle registrazioni della sua voce, soprattutto i giornali: le sue stanze erano occupate interamente da pile di quotidiani e c’era solo un piccolo passaggio largo abbastanza da camminarci attraverso. Pur avendo opinioni discordanti su di lei, tutti gli intervistati concordavano nell’ammettere la particolarità di quella tata: spesso non si faceva chiamare con il suo vero nome, anzi, non voleva dirlo, “sono una sorta di spia”, disse una volta a un bambino, o anche “sono la donna misteriosa”.
Non sapevano neanche dove fosse nata, qualcuno definì il suo un accento francese falso, altri erano convinti che fosse veramente francese ma che avesse mescolato la sua cadenza con quella americana. Dopo lunghe ricerche, sempre più incantato e preso da questa storia, Maloof scoprì la vera provenienza di Vivian Maier.
“La mia curiosità mi spinge a trovare sempre più cose su Vivian”
Era nata a New York, figlia di una madre emigrata dalla Francia e, all’età di sei anni, tornò insieme a lei nella Valle Champsaur. La sua vita e la sua opera fotografica sono state segnate dai viaggi che intraprese, prima in Francia, poi per tornare negli Stati Uniti. Molto importante fu il rapporto che aveva con la pluripremiata fotografa ritrattista Jeanne Bertrand, che per un periodo della sua vita visse con Vivian e la madre Marie e che le trasmise l’amore per la fotografia.
Con al collo la sua Rolleiflex, una biottica che le permetteva di scattare fotografie non portando la macchinetta agli occhi ma guardando da uno schermo, riusciva a mimetizzarsi meglio, ad agire di nascosto. Le sue fotografie rivelano un’attenzione estrema per la tragedia umana, per tutto ciò che nessuno vede o che ignora. Riusciva a trovare del bello in ciò che gli altri disprezzavano. Il padre di un ragazzo, a cui lei fece da bambinaia, racconta di averla vista fare foto al secchio della spazzatura; un’altra ragazza si ricorda di quando Vivian si fermò per quella che sembrava un’infinità davanti a una vetrina, per fotografare manichini nudi e senza la testa.
“Penso che le persone avrebbero amato il suo lavoro… sarebbe diventata una grandissima fotografa”
(Mary Ellen Mark)
Le foto dei barboni, dei bambini che piangono e di ragazzi poveri e con la faccia sporca, di coppie innamorate, di persone che sorridono alla fotocamera o che la guardano infastidite, dimostrano la capacità di Vivian Maier di trovare e di mostrare la bellezza in ciò che non lo è canonicamente. Trovava quelle situazioni e quelle persone talmente interessanti che riuscì a conferire loro dignità. La sua opera è così toccante anche perché, probabilmente, lei non era una persona conosciuta, non si sottoponeva alle regole della fotografia di strada, era come un’ombra, si intrufolava nell’animo dei suoi soggetti e rubava uno scatto: le immagini del bambino caduto a terra, di persone svenute o sulle barelle, probabilmente un fotografo con una certa notorietà non le avrebbe scattate. Da un certo punto di vista è come se lei non avesse avuto rispetto per chi fotografava, da un altro è come se lei fosse sempre stata dietro le quinte, anche nella sua stessa vita, pronta a documentare senza poi voler mostrare nulla al mondo.
Perché Vivian Maier è rimasta nell’ombra? È la domanda che in molti si sono posti. La risposta non è ancora certa, sono state fatte diverse ipotesi, come la personalità chiusa di Vivian, altri pensano che lei avesse effettivamente provato a far conoscere il suo lavoro ma che non ci fosse riuscita, c’è chi trova anche irrispettosa l’assidua ricerca che è stata fatta da John Maloof. È una domanda a cui non avremo sicuramente risposta, resta però la straordinarietà della sua arte, le emozioni che le sue fotografie suscitano in chi le guarda e la loro bellezza.
Il suo lavoro ad oggi si trova in musei e mostre in più luoghi del mondo: da New York a Los Angeles, da Londra alla Germania, dalla Danimarca all’Italia. Nel 2017 a Roma il Museo di Roma in Trastevere ha organizzato la mostra Vivian Maier: una fotografa ritrovata; nel 2025 ha preso vita Vivian Maier – unseen, un’esposizione proposta alla Reggia di Monza sugli scatti sconosciuti della fotografa.
Amava fotografare le persone relegate ai margini della società, vedeva la bellezza in ciò che altri non ritenevano tale e dava attenzione ai suoi soggetti, dai loro sguardi trapelano i loro sentimenti, le loro paure o gioie, che Vivian Maier è riuscita a interpretare e trasformare in immagini poetiche e meravigliose.
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