Tra Amore, Psiche e Sofferenza. Pensieri ed immagini nella solitudine del Bosco Sacro di Bomarzo

Tra Amore, Psiche e Sofferenza. Pensieri ed immagini nella solitudine del Bosco Sacro di Bomarzo

C’è un parco a Bomarzo chiamato “dei mostri”, o in maniera più accurata “Bosco Sacro”, delimitato da mura che lo fanno sembrare estraneo, diviso dal nostro mondo. Al suo interno tutto si distorce, comprese le regole del nostro universo e la nostra percezione delle cose.

Pier Francesco Orsini l’ha fatto costruire per separarsi dal resto del mondo dopo aver vissuto esperienze atroci: il massacro papale di Montefortino, oggi Artena, perché si era rivoltato contro il Papa, l’allora Paolo IV Carafa nel 1556 e la morte, quattro anni dopo della sua amata consorte, Giulia Farnese, tutto entro la cornice delle sanguinose lotte religiose a tutto campo fra il Sacro Romano Imperatore e i principi protestanti dell’Impero. Questi eventi gli hanno portato disperazione e lo hanno convinto che la via non fosse da ricercarsi nel nostro mondo ma in un altro, uno più celato, più evanescente, più oscuro. Ritirarsi per cercare la risposta a tutti i quesiti che lo attanagliavano. Orsini si ritira a vita privata, “làte biosas” (lontano dalla vita mondana) e nell’isolamento adotta uno stile di vita epicureo. Si rinchiude nello studio e diventa letterato e filosofo.

È in questo periodo che egli si avvicina all’esoterismo come alternativa per trovare sollievo alle sue sofferenze. E di elementi esoterici il Bosco è ricco. Contatta pertanto l’architetto Pirro Ligorio affinché creassero insieme un giardino incantato per eternificare il ricordo dell’amata. Lo scopo della sua nuova vita diventa l’”atarassia”, ovvero la liberazione dalle paure e dai turbamenti della vita mondana. La storia del giardino cela e rivela allo stesso tempo un pensiero culturale retroattivo di tipo mitico-simbolico forte ed originale. Nell’ottica di un percorso peripatetico, il mito e il simbolo sono presenti dappertutto e forniscono una chiave interpretativa spiccatamente allegorica/metaforica. Questo anche grazie alle numerose didascalie in lingua latina che accompagnano la descrizione delle statue. Il giardino non è un semplice giardino attorno a cui è stato costruito un recinto che lo vincola. È molto più di questo. È un posto dove poter riflettere, meditare e poter partecipare ad un percorso esistenziale di tipo ascetico. È un viaggio dove, se non si parte con la giusta predisposizione psicologica e mentale sin dall’inizio, non si può comprenderne il fascino e il simbolismo. È, grazie alla presenza di un linguaggio esoterico vivo (sempre attuale) che è possibile partecipare alla decodifica dei simboli del luogo. Quello di Bomarzo è un “non luogo” dove spazio e tempo superano sé stessi all’insegna di una prospettiva dove tradizione esoterica e magia si incontrano. Il tempo ci intrappola, ci rende schiavi, prigionieri delle cose, dei beni materiali. Ci fa adorare l’effimero, il vano. Il tempo ci intrappola nel rumore, nella disarmonia, nella follia. Il bosco rappresenta un rifugio a tutto questo. La sospensione del tempo. Il tentativo di tenere le mani sugli occhi per non vedere. Affinché ciò avvenga, abbiamo bisogno che le rocce parlino per noi. Che ci facciano rivivere il passato. Che ci distacchino dal calore degli affetti. Che ci nascondano dal mondo e poi da noi stessi.

Ma se la sofferenza, invece, non rappresentasse un grido di dolore ma una forma d’Amore? Se invece fossimo noi quelle rocce dimenticate lungo i lati della strada, quelle ignorate, quelle segnate dai messaggi lasciati ai visitatori che verranno ad osservarci?

Quei messaggi li lasciamo noi poiché la pietra non parla da sola. Parla perché noi vogliamo che parli. Noi diamo a lei un’idea. Noi lasciamo che il nostro pensiero scalfisca quel tufo e che lo trasformi in una possibilità, in un’opportunità. Come la terapia. Io sono la mia terapia. Io esprimo concetti per rielaborarli, esorcizzarli, scioglierli. Li sciolgo per me stesso. Ad un tratto capisco che io non voglio odiarmi per odiarmi. Io voglio odiarmi per Amarmi. Che voglio soffrire per poi gioire. Che desidero il freddo della solitudine per raggiungere il calore dei miei affetti. E che tutto questo viaggio è una forma d’Amore verso se stessi. Come una metamorfosi, al cui interno una creatura si completa nel suo stadio finale. O come quelle creature che si ritirano in letargo, quando si aspetta la stagione migliore per ritornare alla vita. Come un sussurro d’Amore nascosto in un grido d’aiuto. Un’imperfezione colorata in un mondo grigio.

La sofferenza mi ricorda quanto è bello volere del bene, poiché essa rappresenta una richiesta d’aiuto per segnalare a noi stessi quando qualcosa non va. Come un messaggio incompreso, una mano sporca, una carezza inespressa, una parola non detta, un’emozione senz’ali. Io non riesco a volare senza di te. Io non riesco a volare senza me stesso. Il bosco è una forma d’Amore verso Noi stessi. Ci ricorda di accettare le cose, lo svolgersi degli eventi, che c’è un momento per essere felici, uno per essere tristi. Di piangere per poi gioire. Di provare rabbia e poi estasi. Angoscia e felicità. Tristezza ed amore. In perfetta armonia. Accettare che le nostre imperfezioni, i nostri sbagli, i nostri errori fanno parte della nostra natura. Il bosco ci ricorda che bisogna andare avanti senza mai dimenticare.

Il bosco è un luogo alchemico; cioè, un luogo dove, per chi lo desideri, si entra per offrire la propria persona ad un’esperienza ontologica di cambiamento, di mutamento sostanziale. Proprio come succede con la trasmutazione dei metalli. È un luogo offerto all’ideale della conoscenza e della verità. Bomarzo è anche un posto dove traspare il senso della tragedia greca, sempre presente nella narrazione della storia iconografica delle statue attorno a cui riecheggia una mitologia intrinseca molto intensa. Il richiamo al mito è ermeticamente evidente nelle caratteristiche proprie di numerose opere costruite in basalto e scavate nel tufo. La sacralità del mito è nella trivialità mostruosa delle strutture e delle facce di pietra come l’Orca. Colpiscono le Sfingi collocate all’ingresso, varcata la soglia rappresentata da un cancello. Colpiscono i numeri che rievocano messaggi inerenti alle teorie mistiche della Cabala e della Massoneria. Cinque come i cinque sensi, sette come le sette meraviglie, tre come numero perfetto fondamentale. Poi c’è il dodici, come le dodici fatiche di Ercole che si commisurano alla grandiosità e monumentalità con cui è stata realizzata la statua più grande del bosco: Ercole che calpesta e uccide Caco. I numeri come riferimento alle arti plastiche, tra cui rientra anche la Musica con musa ispiratrice e l’enfasi di tutte le forme d’arte. Bomarzo come scenario poetico, come teatro buio prima che si accendano le luci, teatro, palco da concerto. La storia dei numeri come parsimoniosa trama di concetti e di sublimazioni. Storia di flussi e tagli nella pietra. Opere concrete tanto quanto i molteplici significati cui esse rimandano. Bomarzo è una specie di labirinto fisico e mentale dove lo stato della coscienza ha l’opportunità di smarrirsi, come, ad esempio nella “casa pendente”, una casa appositamente inclinata, e/o nell’ingresso dell’Orca, per poi riorientarsi con una rinnovata conoscenza di sé stessi. L’importanza dell’ordine con cui sono collocate le opere nella loro interezza rivela un filo conduttore cronotopico essenziale e non trascendibile. Un altro aspetto importante del giardino è quello dell’identificazione che fa leva sulla qualità camaleontica della personalità, quando essa è affine al cambiamento. Il cambiamento ha la possibilità di verificarsi quando diamo adito alla sofferenza interiore di emergere. Il bosco che è in realtà un sottobosco che racchiude segreti impenetrabili; segreti che sgomentano, come l’equilibrio che non c’è, come perdita dell’equilibrio stesso, nello scambio dei contrari, allegoria di un chiasma. Equilibrio come chiusura anche se in realtà è tutta la vita senza equilibrio. Il ricordo della “casa pendente” dove non si entra una volta sola e basta. Ci si entra rinnovati ogni volta se lo si vuole.

A Bomarzo i sentimenti provano confusione per poi ottundersi ed emergere con forza. Vi si respira attraverso uno spiraglio uno spicchio d’aria di eternità. Sembra quasi che l’infinito ed il finito si mescolino in un’unica prospettiva. Il movimento diurno del Sole e quello crepuscolare della luna e le altre stelle si sovrappongono in un’unica visione. Bomarzo è piena di figure ancestrali e archetipiche che generano il “sogno di una cosa”. È un luogo in cui sacrificare i propri sensi, i cinque sensi, alla ricerca dell’”Uno” che alberga nella profondità di ciascuno di noi. Basta volerlo.

 

Di Milena Menzano e Luca Di Salvatore